Un'altra immagine di dolore che ci arriva da questa terra dolorosa che un tempo si chiamava Palestina, poi si è chiamata Israele e da 38 anni l'Onu chiede che un pezzo almeno torni a chiamarsi con il nome originario. Sono i volti disperati e rabbiosi dei coloni costretti a lasciare le loro case dove per decenni hanno vissuto come in un fortino di prima linea, circondati dai militari e dai fili spinati; e dall'odio di chi stava loro attorno.
Non importa ora dire che gli sta bene, che avrebbero dovuto non andarci e comunque cercare di stabilire un rapporto con chi, per far spazio a loro, era stato cacciato. Non importa, anche se verrebbe voglia di gridare contro l'operazione mediatica che mostra le lacrime di questo abbandono ma non mostra - non ha mai mostrato - quelle sgorgate a seguito di altri abbandoni forzati e di altre distruzioni: quelle del `48, dell'espulsione sistematica dei palestinesi dalle loro case e dai loro campi (Ilan Pappe, coraggioso storico israeliano, confessa di aver scoperto la «Nakbah» - la «catastrofe», come è stata chiamata dalle vittime - solo molto tardi nella sua vita di studioso, tanto spesso è stato il velo che l'ha coperta).
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