EUROPA

«L'impossibile è la nostra vera chance»

SCHRöDER VUOLE GIOCARE D'ANTICIPO
CASTELLINA LUCIANA,GERMANIA

«La `chance' che la situazione offre sta nella sua anomalia», risponde flemmatico Kajo Wasserhoevel, responsabile per la campagna elettorale della Spd, quando gli si pone l'inevitabile domanda: come si fa a guidare una competizione dall'esito del tutto scontato? Come si fa a mobilitare il partito e a trascinare gli elettori se la disfatta è già inesorabilmente iscritta nel voto del 18 settembre e tutt'al più si potrà riconquistare qualcosa sul 14% di perdita - il calo più grave mai subito da un partito in Germania - che i sondaggi annunciano a sei settimane dall'apertura delle urne? Non ha tutti i torti, Kajo Wasserhoevel: c'è una stravaganza nella vicenda e dunque spazio per esiti improbabili. La prima bizzarria sono le elezioni stesse che Schröder ha testardamente voluto (persino contro il suo partito che, all'annuncio della decisione, è rimasto interdetto), sebbene peggior momento per misurare la sua popolarità non avrebbe potuto darsi. Perché le ha volute a tutti i costi quando avrebbe potuto attendere circostanze più propizie, una ripresa della congiuntura che nel paese, a differenza di quanto avviene in Italia ma anche in Francia, sia pure debolmente si delinea? Quando la protesta che dal suo stesso partito si leva contro l'agenda 2010 - la riforma che mutila lo stato sociale più forte del mondo - si fosse un po' acquietata? Quando il nuovo partito creato dalla sinistra occidentale e dalla orientale Pds avesse mostrato le prime crepe, quelle che tutti si aspettano prima o poi, per via della storica diversità culturale e sociale delle sue due componenti, ma anche per via del carattere puntuto dei rispettivi leader, Oskar Lafontaine e Gregor Gisy («un partito con due Bertinotti», insinua qualcuno nel partito della sinistra europea che conosce i suoi)?

Ma qual è il fascino della destra?

Non solo: perché mai la Spd precipita proprio per via dei tagli portati a pensioni, sussidi di disoccupazione, sanità e così via e viene invece premiata la Cdu che di tagli ne vuole molti di più e non ne fa mistero? Perché, sebbene un recentissimo sondaggio dica che il 60% dei tedeschi vuole tener fede all'impegno di fuoruscita dal nucleare e anzi vorrebbe accelerarne i tempi, la stessa maggioranza preferisce la Cdu, che ha già dichiarato che sulla questione occorre tornare indietro, e punisce la Spd che in questi anni di governo ha varato le leggi energetiche più ecologiche d'Europa?

E' un fatto che l'azzardo del cancelliere ha già dato, in una sola settimana, qualche esito: la Spd ha riguadagnato 3 punti, la Cdu ne ha persi 4, sicchè se si contano tutti i voti della destra ( Cdu-Csu e Liberali) e tutti quelli della sinistra (Spd,Verdi, Die Linke-Pds) è quest'ultima che vincerebbe oggi. Il problema è che mentre la prima costituisce una consolidata coalizione la seconda non lo è. Anzi: per ora è una rissosa compagnia.

E però un fatto nuovo c'è: già in questa prima settimana quello che appariva un inviolabile tabù - un accordo con i nuovi venuti di Lafontaine - comincia a incrinarsi. Il primo ad avere il coraggio di metterlo in discussione è stato il borgomastro di Berlino, Wowereit, forte della sua esperienza nella città-stato e capitale federale, dove dal 2002 governa con la Pds: «Qui, come del resto nel Meklemburgo-Vorpommern, questo partito ha imparato la differenza fra ideologia e realpolitik».

E' vero che il cancelliere lo ha subito zittito dicendo di lui che è un ottimo borgomastro ma su questa alleanza sbaglia. Ma il dado dell'apertura del dibattito è stato tratto anche se Wowereit ha dovuto spostare la sua ipotesi alla prossima tornata, osservando che, comunque, un accordo non deve essere escluso a priori, che non possono esserci tabù per ogni tempo e comunque chissà cosa diventerà questa nuova sinistra. «Chissà piuttosto - ha incalzato Bijorg Boehning, presidente degli Jusos - cosa accadrà in Germania fra 3 o 4 anni». Più negativi i Verdi che, da sempre, hanno osteggiato qualsiasi intesa con la Pds e sono ideologicamente sempre più distanti dalla vecchia cultura statalista della sinistra socialdemocratica rappresentata da Lafontaine e dai sindacalisti che l'appoggiano.

La sindrome di Weimar

Il discorso, comunque, è iniziato, anche se ci vorrà molto tempo perché diventi tema concreto del dibattito socialdemocratico. Non era stato proprio Lafontaine, del resto, quando, negli anni `90, era ancora presidente della Spd, a rifiutare qualsiasi ipotesi di accordo con la Pds? Se è facile dire no a una coalizione rosso-rosso-verde, è tuttavia assai più difficile dire che è meglio la «grande coalizione» Cdu-Spd che, se i socialdemocratici riguadagnano un po' di terreno e Die Linke avrà il successo che i sondaggi prevedono (11-12%) diventerà fatalmente la sola soluzione sul tappeto. In Germania non è infatti possibile non fare un governo: la «sindrome di Weimar», a settant'anni di distanza, è ancora in agguato e un partito che rifiutasse di assumersi, come qui si dice, «le sue responsabilità», lasciando il paese nell'incertezza, non verrebbe mai perdonato dall'opinione pubblica.

Con un rovesciamento delle parti lo spauracchio della «grande coalizione» (che oggi sarebbe per la Spd - su questo tutti sono concordi - una rovina, a differenza di quando, fra il '66 e il `69, fu un trampolino di lancio per la storica vittoria di Brandt) viene così usato nella campagna elettorale proprio dalla Spd come una sciabola contro Die Linke. Una sua « eccessiva» affermazione, dicono per farsi intendere dagli elettori socialdemocratici che si accingono a passare al nuovo partito, costringerebbe la Spd a fare un governo con la Cdu: meglio dunque (ma questo si fa capire senza dirlo) che Angela Merkel abbia i numeri per farsi il governo che vuole.

Un argomento capzioso, che tuttavia ha una certa presa anche perché a rifiutare categoricamente l'ipotesi di un'alleanza con i fratelli separati sono proprio Lafontaine e i suoi, in realtà assai più rigidi su questo punto della Pds che ha già collaborato, sia pure a livello di Länder, e che per questo - è il caso di Berlino - è stata aspramente attaccata dagli stessi militanti occidentali del nuovo partito che le hanno rimproverato tutti i tagli apportati alla spesa sociale per colmare la voragine del debito lasciato dal precedente governo Spd-Cdu della città.

Un ruolo importante lo giocheranno certamente nel dopo voto i sindacati - la Ig Metall e il pubblico impiego - che, pur senza sostenere ufficialmente Die Linke, non nascondono le loro simpatie per la nuova formazione, cui hanno fornito non pochi candidati dal proprio quadro intermedio, così come ha fatto una significativa area di intellettuali, alcuni dei quali, piuttosto autorevoli, si trovano alla testa della lista di Amburgo (il giurista Paech), di Bremen (l'economista Schin ), e alcuni dirigenti verdi e socialdemocratici da tempo in sofferenza nei loro rispettivi partiti: Ulrich Maurer, fino a ieri membro del presidium federale e presidente della Spd nel Baden Wuertemberg, e Gisela Alltman, verde, ex segretaria di stato nel ministero dell'ecologia.

In Germania di partiti, a differenza che da noi, ne nascono di rado, per via del deterrente dello sbarramento al 5%, ma anche perché così detta la tradizione. Quando ormai 25 anni fa il quadro fu rotto dall'irruzione dei Verdi, accanto alla più che secolare Spd e ai vecchissimi Cdu e Liberali, fu un evento. Così è ora con Die Linke, anche se qui giocano rancori derivati da vicende ancora recentissime: l'attuale presidente spd Muntefering era segretario dell'allora presidente Oskar Lafontaine, e quando questi decise di abbandonare tutto dovette leggere la notizia sul giornale.

Gli odi, come dopo tutte le scissioni dolorose, sono forti. L'altro giorno, quando l'ex presidente della Spd e ex capo del governo nel Saahrland, ha tenuto proprio lì il suo primo comizio - perché, oltre a essere capolista nel grande bacino industriale della Renania Westfalia, questa è la circoscrizione dove punta a strappare un mandato diretto togliendolo all'attuale deputato socialdemocratico - un uomo, dal fondo della sala, ha gridato: «Oskar ti odio». L'interruzione, seguita a un tentativo di aggressione, è stata così allarmante che il governo della Saahr ha deciso di dare al suo ex presidente la scorta.

Il passato che passa

Più distesi, paradossalmente, dicevo, i rapporto fra Spd e Pds, perché in questo caso gli attriti sono ormai storici e si riferiscono a un mondo che non c'è più. Al partito di Gisy e di Bisky si riconosce ormai una rappresentanza quasi sindacale dell'est, dove infatti il partito ottiene percentuali ben oltre il 20 %. Perché gli «ossis» continuano, a 15 anni dall'unificazione della Germania, a essere diversi dai loro concittadini occidentali. (Non è ancora così negli Usa, ha osservato qualcuno, dove dopo 140 anni dalla fine della guerra civile, cittadini e partiti degli stati del nord sono del tutto diversi da quelli degli stati del sud). E' un fatto che la Spd berlinese non fa mistero di intendersi meglio con la Pds che con gli stessi propri compagni della direzione federale. Per non parlare della Wags.

Quel che rende la campagna elettorale piatta è Angela Merkel, la scialba dottoressa in fisica che viene da est (ma con l'est non ha più alcun rapporto) e che, grazie a una serie di circostanze in gran parte fortuite, ha percorso a tappe forzate i gradini della carriera: figlia di un pastore protestante del Meklemburgo che come il più noto Eppelman teneva i contatti con il nostro movimento della pace occidentale, sperando che il regime della Ddr sarebbe caduto per via pacifica e non sulla punta delle baionette americane, anche Angela, ex Fdi (la gioventù comunista) e mai dissidente militante, approdò quasi per ragioni familiari al «Democratisches Aufbruch» (Apertura democratica). E' da questo organismo creato da Eppelman che in seguito Kohl abilmente reclutò i quadri per fornire un alibi democratico alla Cdu dell'est, sempre formalmente tenuta in vita dal regime e che, a differenza di quanto fece la Spd con l'analogo suo omologo partito, fu automaticamente legittimata dal vecchio cancelliere - anche perché si portò in dote i copiosi beni di cui la Repubblica dell'est l' aveva dotata.

Anche per via di questo suo percorso anomalo la candidata cristiano-democratica non ha un profilo aggressivo e neppure una personalità molto spiccata: non ha molte idee, si dice di lei, ma in compenso non fa molti errori. Non è una Thatcher, insomma, tanto meno un Berlusconi. L'aiuta del resto la tradizione del partito di cui in pochi anni è diventata leader: una forza certo conservatrice ma fedele al famoso modello di capitalismo sociale detto `renano'. Una forza moderata, che non spaventa, anche se di quella tradizione resta ormai poco o niente.

Poco, di quella tradizione, resta tuttavia anche nella Spd, e dunque anche qui come in tante altre parti dell'occidente è difficile distinguere. Se non per il fatto che Merkel assicura di voler reintrodurre la disciplina di Maastricht violata da Schröeder - e tutti sanno che, sebbene non lo dica più apertamente, lui invece del patto di stabilità vorrebbe liberarsi. Le diversità appaiono dunque minori, anche se in realtà sono ben più marcate di quanto non sembri. (A cominciare dal che fare in Iraq, di cui pure nella campagna elettorale per ora non si parla). La verità è che si parla poco delle cose concrete e tutti promettono senza dire cosa faranno per porre fine a una situazione in cui ogni anno escono dalle casse dello stato 40 miliardi di euro in più di quelli che entrano; e di cosa fare per ridurre gli 870 miliardi di interessi annui che vengono pagati per il debito pubblico accumulato: 500 euro l'anno per ogni cittadino. Non a caso negli ultimi giorni anche la candidata Cdu ha cominciato a dire che forse non si potrà «rientrare nei parametri comunitari» già nel 2006, ma un poco dopo.

La vera differenza fra Merkel e Schröder, o almeno quella più visibile, sta nella prestazione televisiva: una pop star lui, un disastro lei. Che infatti ha già detto che di «duelli» elettorali sul piccolo schermo è disposta a farne non più di uno. La Spd, come ha detto Schröder ,«non è in ginocchio, il volto nella polvere». Almeno in Tv .

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