VISIONI

Johnny Pacheco star propulsiva della salsa

LORRAI MARCELLO,MILANO

Con garbata ma ferma insistenza spiega agli uomini del servizio d'ordine che vigilano all'ingresso del back stage che deve proprio arrivare da Johnny Pacheco: è un signore africano, non giovane, con alcuni vecchi lp comprati ad Abidjan alla metà degli anni settanta che vuole assolutamente far firmare dal suo idolo, in particolare uno, Celia & Johnny, del `74, su cui campeggia un grande autografo della compianta Guarachera de Cuba. Basta un colpo d'occhio al pubblico assiepato sotto il palco di Latinoamericando per farsi un'idea della forza integratrice della salsa: bianchi, mulatti e neri, peruviani - c'è chi si è portato da casa campana e maracas per partecipare attivamente - portoricani, dominicani, ma anche africani, che si distinguono di primo acchito dai neri latini per il modo di ballare la salsa meno estroverso, più intimo, si direbbe più assorto.

Magro, capelli bianchi, occhiali, un viso che la vecchiaia ha scavato e che contribuisce a far pensare più a un Eduardo che a una star della salsa, Pacheco sta sul palco con evidente divertimento ma anche grande discrezione: certo gli anni non gli consentono più grandi esuberanze, ma in ogni caso fra anni sessanta e settanta è stato una delle forze propulsive di uno dei filoni decisivi della musica dell'ultimo mezzo secolo, e non ha bisogno di dimostrare più niente. A parlare, basta la musica: alle sue spalle Pacheco ha giusto un pugno di musicisti, due trombe, tastiere, tres (la chitarra di origine cubana), contrabbasso, conghe e bonghi, ma è impressionante come con un organico tutto sommato limitato il Tumbao Anejo (la più recente di una serie di gloriose denominazioni delle sue compagini) riesca a creare un suono estremamente pieno, gratificante, che si distende con una inesausta continuità ritmica. Del resto a comporlo sono musicisti coi fiocchi, che hanno curriculum in cui compaiono formazioni come quelle di Andy Gonzales e Many Oquendo. E di prim'ordine è anche l'assortimento di cantanti che Pacheco ha a fianco a sé: il cubano Hector Casanova, il giovane Ray Viera, e Watussi, notevole cantante venezuelano che ha avuto occasione di lavorare con molti degli artisti sul palco e che da anni tiene un piede a Milano, ospite della formazione per questa data di Pacheco. Trombone e timbales vengono fuori a rendere ancora più corposo l'impatto dell'orchestra quando entra in scena, col suo stile virile e cordiale, anche Ismael Miranda, che emerse giovanissimo nella Fania creata da Pacheco. E arriva il momento per Pacheco per rispolverare il flauto, per un piccolo saggio della sua perizia sul suo strumento principe fra tanti che che ne ha padroneggiati. Arrivato undicenne a New York dalla Repubblica Dominicana, dove era nato a Santiago de los Caballeros nel marzo del `35, figlio d'arte (il padre, clarinettista, guidava la rinomata Orquesta santa Cecilia), passato attraverso il jazz di Stan Kenton, Pacheco fu prima colpito dal formato cubano della charanga, che volse alla sua maniera in «pachanga», poi da un altro modello cubano, quello dei conjuntos, e di rielaborazione in rielaborazione, di successo in successo, esprimendosi come multistrumentista, compositore, arrangiatore, bandleader, produttore, creò assieme a Jerry Masucci le fortune delle epocali Fania Records e Fania All Stars. La combinazione di due trombe, tres e tastiere è stato il segreto dell'estetica Fania, e non cessa di apparire al contempo elegantemente classica e vigorosamente attuale. «Io penso che il tumbao è come la pennicilina: funziona sempre», scherza Pacheco dopo il concerto. «Se funziona da quarant'anni, perché cambiarlo? L'essenziale è che mi piace ballare, e che la musica che faccio è musica per ballare, che faccia svegliare anche un morto». La salsa oggi? «Sta diventando come un bolero con un ritmo tropicale: io non posso ballare questo tipo di musica». Quali sono stati i musicisti più importanti per la sua formazione? «I miei. Scherzi a parte, ho cominciato dalla charanga, quindi da Arcanio y su Maravilla, Aragon, poi sono stato ispirato dal tumbao, quindi da Chapottin, Arsenio. Non ho mai negato che la musica che facciamo è di origine cubana. Quello che abbiamo fatto a New York è stato di dare un'altra veste alla musica cubana, di metterle più ritmo e di darle altri colori, che l'hanno resa anche più commerciale. Per fare una salsa occorrono diversi condimenti: noi ci abbiamo messo condimenti cubani, portoricani, dominicani, inglesi...». Ma il son, che sta alla base di tutto, è nato a Cuba? Sembra una domanda inutile. E invece no. Pacheco ci pensa su un attimo, sempre ironico: «A Santo Domingo dicono che il son è nato lì». E poi, sornione: «e che hanno anche i documenti che lo dimostrano».

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