VISIONI

Malinconia in salsa latinoamericana

LORRAI MARCELLOMILANO

Tutto, in Juan Luis Guerra, contrasta felicemente con il cognome. Da vicino, a parlarci insieme, non fa minimamente pesare né la statura fisica, imponente, né quella artistica e commerciale, che non è da meno. Si comporta con semplicità, risponde gentilmente, affabile, e parla pacatamente, senza ombra di arie da star. E non è uno di quei personaggi che in scena si trasformano: in una classifica di animali da palcoscenico si troverebbe abissalmente più in basso del gradino che invece la sua produzione occupa in una ideale gerarchia di valori musicali. Muoversi sul palco, ballare, si vede che non è la sua specialità, è una specie di obbligo di ospitalità nei confronti del pubblico che ha davanti, una questione di buona educazione. E non è neppure un cantante di speciale qualità, uno di quelli che ti ipnotizzano con la voce. Il carisma di Juan Luis Guerra è tutto dentro la musica. E un ingrediente cruciale di quel carisma è una sorta di fondo malinconico che si percepisce spesso nelle sue canzoni, anche in quelle che mettono irresistibilmente in moto la platea, che scatenano balli irrefrenabili e che molti accompagnano cantando a squarciagola. È questo fondo malinconico, questa sensibilità esacerbata, in cui si indovina un'inquietudine, un tormento che sta dietro la sua completa, bonaria mancanza di aggressività sul palco. Se gli chiedi di questa malinconia, la butta sul suo romanticismo, ma è qualcosa di più e di diverso dal romanticismo. Ed è questo scarto da una dimensione banalmente solare il tocco decisivo che fa la grandezza della musica di Guerra. Che si regge su una non comune intelligenza nei testi, creativi, innovativi, fulminanti e capaci allo stesso tempo di intercettare l'adesione popolare: quell'immagine surreale del Niagara in bicicletta per dire di un malcapitato che finisce in un ospedale dove mancano i medici e forse non c'è l'anestesia. Quel «no hablamos ingles» che in El costo de la vida può far scattare un moto di orgogliosa identificazione negli ascoltatori ispanofoni. E una sofisticata padronanza di tanti linguaggi del pianeta odierno della musica e il talento nel metterli insieme con una cifra stilistica propria. L'attacco e i riff di fiati di Rosalia è Kassav puro, zouk anni ottanta delle Antille francesi della più bell'acqua, ma ormai mescolato al merengue del suo cavallo di battaglia fa Guerra al cento per cento. E la chitarra di El costo de la vida, firmata musicalmente da Diblo Dibala, è evidentemente soukous, ma ormai fai fatica a rendertene conto. Così come qua e là fa capolino il ritmo implacabile della timba cubana, ma l'insieme è né più né meno che Guerra a denominazione d'origine controllata. In questo Guerra è uno degli esempi migliori di quello di cui c'è tanto bisogno sulla scena musicale contemporanea: rimescolare le carte con il temperamento artistico per sviluppare qualcosa di unico. Diciotto elementi schierati sul palco di Latinoamericando (che per averlo per una prima assoluta in concerto in Italia non ha badato a spese), fra trombe, tromboni, sax, coristi, tastiere, chitarra, basso, batteria e uno stuolo di percussioni, che suonano con grande convinzione, ma in souplesse, senza ostentazioni. Con accortezza, attraversandoli anche con diverse medley, Guerra ha puntato sui successi consolidati, limitandosi a sfiorare il disco del 2004, Para ti, che in Italia non solo non ha avuto nessuna circolazione, ma di cui non ci si è praticamente nemmeno accorti, se non all'interno dell'immigrazione latina. Ma sulla distanza la musica di Guerra mantiene miracolosamente intatte le sue virtù, e per la gioia di chi è corso ad ascoltarlo non c'era bisogno d'altro.

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