«Stavamo dormendo, Yahya e io. Ci ha svegliato la porta della nostra stanza che andava in pezzi. Siamo saltati sul letto, gridando. Nella camera, c'erano tre persone. I volti coperti, armati di mitra e pistole. Due ci puntavano le armi addosso, uno ci parlava. In somalo. Ha detto: datemi tutto ciò che c'è di valore. Soldi, oro. Subito. Gli ho dato il beautycase, e tutto quello che avevamo in casa. Abbiamo cercato di collaborare. Ma non c'è stato nulla da fare», racconta agitata al manifesto Awa, la moglie di Abdulkadir Yahya Ali, uno dei più noti attivisti somali, impegnato da anni nel tentativo di pacificare il proprio Paese, creando spazi di discussione e trattativa tra le diverse fazioni in lotta, a Mogadiscio ed in tutta la Somalia. «Di colpo, l'uomo che parlava, si è rivolto a mio marito», continua la donna. «Dov'è il tuo computer portatile? Dammelo!». Subito dopo, lo ha trascinato nel corridoio. Dove lo state portando?, ho urlato. Un attimo, alcuni spari. E Yahya era morto. Ottenuto il computer, l'hanno ammazzato». Così è stato ucciso Abdulkadir Yahya, ideatore e direttore del Centro per la ricerca e il Dialogo (Crd), organizzazione non governativa somala nota in ambito internazionale, fondata nel gennaio 2000. Aveva 49 anni. Finito domenica notte intorno alle due e venti, nella sua casa di Mogadiscio, all'altezza del chilometro 5, tra l'aereoporto e lo Shamo Hotel. Che si sia trattato di un'esecuzione, viene confermato dai dettagli che fornisce il cugino del morto, Ahmed Nour. «Davanti alla villa di Yahya sono arrivati tre o quattro technicals (pick-up con mitragliatrice, a bordo 15 persone ciascuno). Questi uomini hanno immobilizzato ed incatenato le quattro guardie che presidiavano la casa. Hanno tagliato i fili del telefono, e alcuni sono entrati nell'abitazione. Chi l'ha ucciso ha esploso cinque colpi, uno dei quali alla testa», racconta Nour, inframmezzando parole in italiano all'inglese. «La situazione a Mogadiscio è assai critica, può succedere di tutto. Ma Yahya era molto rispettato in città, tutti sapevano che lavorava per la pace, per la riconciliazione», prosegue l'uomo. «Qui regna il caos. Siamo costretti ad investigare da soli, con l'aiuto di alcune persone che prima lavoravano per il Cid (dipartimento centrale di investigazioni, ndr)».
Ad alcuni mesi dalla raffica di mitra che ha ucciso Kate Peyton, reporter della Bbc, si torna a parlare di Somalia per una morte violenta e strana. Ma chi era Abdulkadir Yahya Ali? «Era uno dei pochi uomini capaci di fare sedere allo stesso tavolo esponenti di clan rivali o uomini con prospettive politiche totalmente differenti. In un paese dove da 14 anni non c'è più Stato, e dove parlano solo le armi, Yahya riusciva a mantenere aperti degli spiragli di dialogo», spiega al manifesto Jabril Abdulle, condirettore del Centro per la ricerca e il Dialogo. «Quest'uomo ha dedicato la sua vita alla Somalia, perché iniziasse un vero processo di pace. Ha rifiutato più volte di lasciare il paese, di accettare incarichi all'estero. Yahya è rimasto in Somalia per costruire condizioni di sicurezza per la sua gente dall'interno, vivendo accanto a loro, lavorando con i bambini-soldato, con gli ex-miliziani, per lavorare con la società civile. La sera della sua morte abbiamo lavorato fino a tardi per organizzare un incontro tra due fazioni rivali in lotta per una zona della città. Poiché sembrava impossibile trovare un luogo d'incontro, Yahya aveva convinto i due clan ad incontrarsi per pranzo a casa sua, questo martedì. Purtroppo, poche ore dopo, è morto», ricorda Jabril.
Un uomo di pace, dunque; rispettato da tutti, nella disastrata capitale somala. «Certo che conoscevo il signor Yahya», dice Farah, rispondendo al telefono, nonostante la linea disturbata, dal suo suq di Mogadiscio. «Chi l'ha ucciso, non ha a cuore le sorti del paese». Appunto, chi l'ha ucciso? «Stiamo indagando, abbiamo indizi su alcuni uomini, ma vogliamo arrivare ai mandanti», afferma Jabril Abdulle. «Una gang capace. Professionisti. Ho altre informazioni che per ora non posso rivelare».Da diverse parti, si è pensato agli islamisti. Di sicuro, lontano dai riflettori dei media internazionali, a Mogadiscio come in tutta la Somalia, ma anche nelle regioni del sud-est etiopico, si combatte una guerra sporca che vede coivolti combattenti islamici di varia provenienza, fazioni locali, servizi segreti dei paesi confinanti e agenti dell'antiterrorismo dei principali Stati occidentali. Troppo presto per dire se Yahya, e i dati presenti nel suo computer, dessero fastidio agli interessi di qualcuno di questi. Di certo, la gente di Mogadiscio avvertirà l'assenza di un uomo che creava ponti di dialogo, nell'improbabile accozzaglia di signori della guerra e capi-clan che compongono l'attuale governo di transizione in esilio in Kenya.