MONDO

Etiopia, linea dura a oltranza

MANFREDI EMILIO,ADDIS ABEBA

«Non abbiamo chiesto a nessuno il permesso per cacciare Mengistu. Ora non intendiamo negoziare con nessuno riguardo a pace e sicurezza in Etiopia. Se qualcuno entra in quello che noi del governo definiamo campo minato, non ci sarà più nessuna forma di amore o di dialogo. Per chi passa la linea rossa, c'è solo la guerra. E in conformità a una guerra, decideremo noi le regole di ingaggio». Così parlava, poco più di una settimana fa, il primo ministro etiope Meles Zenawi, durante l'intervista andata in onda sull'unico canale televisivo (governativo) del paese. Rispondendo a domande incentrate soprattutto sulle elezioni generali del 15 maggio scorso, sui disordini e sulla repressione ad esse correlati, l' intervento assai atteso del premier ha lasciato molta parte della popolazione perplessa, se non sconvolta. «Continua a minacciarci, ma come pensa di governare il paese, trattando in questo modo il suo popolo?», diceva Tadese, tassista, seduto in un bar davanti al televisore, durante la messa in onda dell'intervista. Intorno a lui, volti tirati e commenti a mezza voce, accompagnavano le parole di Zenawi, il quale ha anzitutto affermato che eventuali brogli nelle elezioni non hanno nulla a che vedere con gli incidenti del giugno scorso. «Anzitutto, non c'è stato nessun tipo di trucco in queste elezioni. In secondo luogo, sono in corso investigazioni supervisionate da osservatori internazionali». Per ciò che concerne le reali cause delle violenze, ha continuato Zenawi, «diversi sono gli attori che hanno avuto un ruolo nel creare il caos. Istigatori sono presenti sia in Etiopia che nella diaspora. Si tratta di nemici storici dell'Eprdf (il partito al governo, n.d.r.), e la loro agenda non ha nulla a che vedere con le elezioni. Molti di loro sono legati al precedente regime di Mengistu Haile Mariam. Questa gente spinge i nostri giovani a creare incidenti. I ragazzi si fanno coinvolgere da questa falsa propaganda e poi ne pagano il prezzo, spesso con la vita». Quanto alla durezza delle misure repressive messe in atto per placare una protesta disarmata (almeno 36 morti, centinaia di feriti, migliaia di arresti, il tutto in pochi giorni), Zenawi ha sostenuto che «contravvenire alla legge è illegale. Non c'è stata nessuna rivincita contro i sostenitori dell'opposizione. Semplicemente, chi non ha rispettato la legge èstato punito».

Dichiarandosi dispiaciuto per la perdita di vite umane, Zenawi ne ha però dato la colpa a chi diffonde «notizie tendenziose», difendendo l'operato dei reparti speciali dell'esercito da lui stesso inviati a reprimere ogni accenno di protesta. Riguardo agli scenari futuri, il leader ha dichiarato che «la situazione è nelle mani del popolo. Se gli etiopi non fomenteranno violenze, nulla accadrà. I partiti di opposizione devono scegliere da che parte stare. Chi deciderà di trascinare lagioventù etiope nel fuoco, si brucerà a propria volta. Sia chiaro per tutti, in Etiopia non vi sarà nessuna rivoluzione delle arance o delle rose. Nessuna ripetizione di ciò che è successo in Ucraina o in Georgia. Mai».

Considerate queste parole, sembra quasi inutile cercare di capire quale sia stato il reale esito delle elezioni. L'8 luglio, un mese dopo il massacro di Addis Abeba, era prevista la comunicazione dei risultati elettorali definitivi. Così non è stato. In una conferenza stampa dai toni farseschi, il presidente della commissione elettorale etiope (Nebe), Kemal Bedri, ha comunicato i vincitori ufficiali di 307 seggi del parlamento federale su 547 totali. Per ora è in vantaggio l'Eprdf con 139 scranni, seguito dai due principali gruppi di opposizione, il Kinjit con 93 e l'Uedf con 42. Dunque, bisognerà attendere la verifica dei voti nelle circoscrizioni mancanti per sapere chi ha la maggioranza.

E mentre Hailu Araya, portavoce di Kinjit, dichiarava alcuni giorni fa al manifesto: «Le parole del premier sono intimidazioni e minacce già sentite che, in questo momento politico, hanno l'effetto di accrescere la tensione in maniera irresponsabile», Gizachew Chiferraw, del comitato esecutivo dello stesso partito, sosteneva al telefono che «Zenawi si comporta come se queste elezioni non avessero alcun peso. Il governo è l'orchestra, il governo è il pubblico del teatro. Si applaudono da soli. Ma il popolo etiope spera ancora nell'utilità del proprio voto».

Intanto Addis Abeba vede ricomparire, ogni giorno più numerose, le divise blu mimetiche ed i mitra della polizia federale a pattugliare le strade della capitale. Un mese dopo i morti, due mesi dopo il voto, l'Etiopia è ancora sull'orlo del baratro.

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