CULTURA

L'apostolo del mercato

In un libro la biografia intellettuale di Friedrich A. von Hayek
CAVALLARO LUIGI,ITALIA

Si racconta che, nel corso di un brainstorming di esponenti del partito conservatore inglese, riuniti per discutere di tattica e strategia, un quadro del partito prese la parola per sostenere che i tories dovevano scegliere pragmaticamente la «via di mezzo», evitando gli opposti estremismi della destra e della sinistra. Prima che costui finisse di parlare, Margaret Thatcher, da poco a capo del partito, frugò nella cartella dei propri documenti e ne tirò fuori un libro: era La società libera, di Friedrich von Hayek. Quindi interruppe il collega e, tenendo ben alto il libro perché tutti i presenti potessero vederlo, disse con un tono che non ammetteva repliche: «Questo è ciò in cui crediamo!», e buttò poi il libro sul tavolo. Un episodio del genere è sufficiente per comprendere gli opposti sentimenti con cui di solito ci si accosta alla figura di Friedrich August von Hayek (1899-1992), certamente uno dei maggiori filosofi sociali del XX secolo. Da un lato, infatti, vi sono coloro che vedono in lui il campione della lotta del liberalismo contro i socialismi realizzati e, brandendo i suoi insegnamenti come una clava, accusano di «totalitarismo» chiunque osi revocarli in dubbio. Dall'altro lato, vi sono coloro che considerano Hayek come il profeta di quella gigantesca «lotta dei ricchi contro i poveri» che nei primi anni Ottanta si inaugurò nel mondo anglosassone con Ronald Reagan e la signora Thatcher, e da lì si diffuse per le contrade del mondo intero, lasciando dietro di sé miseria, disoccupazione, disuguaglianze e precarietà, e per motivi esattamente speculari aborriscono Hayek qualunque cosa dica, anzi spesso senza nemmeno aver letto una riga di quel che ha scritto (ché se lo facessero, molti scoprirebbero che gli sono vicini più di quanto non credano; ma questo è un altro discorso).

Le domande appropriate

Il merito principale di questo libro del politologo inglese Andrew Gamble (Friedrich A. von Hayek, il Mulino, pp. 334, € 19,50) è quello di rifuggire da entrambi gli approcci. La sua idea è che il progetto intellettuale di Hayek sia al contempo una critica ideologica del socialismo e un contributo alla comprensione della natura della società moderna, e che i due aspetti, benché strettamente interconnessi, siano anche separabili l'uno dall'altro. Anzi, dice Gamble, separarli è necessario, se si vuol comprendere l'importanza del pensiero di Hayek, giacché - scrive - alcune delle sue più notevoli intuizioni «non hanno avuto nei suoi scritti il necessario sviluppo a causa delle chiusure ideologiche che egli stesso ha imposto al proprio lavoro». Assai spesso, a suo avviso, più delle risposte contano le domande che Hayek pone ed è chiaro che quanti lo considerano soltanto un avversario ideologico respingono le prime senza capire l'importanza delle seconde, mentre sono proprio queste ultime - secondo Gamble - che potrebbero rivelarsi un patrimonio prezioso non solo per i liberali e i conservatori, ma soprattutto, e paradossalmente, per i socialisti: almeno per coloro che cercano di ripensare i modi in cui riformare le istituzioni esistenti senza rinunciare alle aspirazioni di libertà, eguaglianza e solidarietà.

L'ipotesi di Gamble è che la chiave per comprendere la matrice della filosofia sociale di Hayek vada ricercata in un suo scritto giovanile (ma pubblicato solo negli anni Cinquanta), intitolato L'ordine sensoriale: è qui, infatti, che Hayek, muovendo dalla distinzione kantiana fra l'ordine fisico degli eventi esterni e l'ordine sensoriale proprio della mente umana, avrebbe fissato una volta per tutte le sue idee sui limiti della conoscenza umana, giungendo a sostenere che la mente individuale, in quanto microcosmo facente parte di quel macrocosmo di complessità superiore costituito dal mondo fisico, non avrebbe mai potuto pervenire ad una comprensione completa né del suo oggetto né di se stessa.

Benché l'opinione non sia nuova (Gamble ricorda che era già stata avanzata da John Gray in un saggio apparso nel 1986), il merito maggiore di questo libro consiste nello svolgerla in modo convincente. La critica martellante di Hayek al «collettivismo» (un concetto che per il filosofo austriaco possiede la stessa latitudine semantica che ha il «comunismo» agli occhi del nostro Presidente del consiglio, e include perciò non solo i regimi di tipo sovietico ma anche il welfare state socialdemocratico e financo la dottrina sociale cattolica) si rivela, nella trattazione di Gamble, come la declinazione in campo morale, economico e politico dei postulati concernenti i limiti della mente individuale.

Sotto questo profilo, molto opportunamente Gamble rimarca la distanza di Hayek anche dall'ortodossia economica dominante. Contrariamente ai cantori dell'equilibrio economico generale (che comunque non sono mai così stupidi come coloro che si industriano a tradurre le loro eleganti formalizzazioni matematiche in ricette di politica economica), Hayek non ritiene affatto che l'ordine di mercato assicuri la piena e ottima allocazione delle risorse, né è possibile istituire alcuna parentela fra le sue dottrine e la moderna favola dell'homo oeconomicus: nulla di più lontano da lui dell'idea che gli individui siano agenti massimizzatori, come suppone l'odierna teoria economica (monetarista o neoclassica che si voglia). Il mercato non è per Hayek il paradiso: è semplicemente il meno illiberale dei mondi possibili, visto che qualsiasi tentativo di istituire gerarchie di fini comuni in un contesto segnato dalla dispersione della conoscenza non può che tradursi in esperienze tragiche, come quelle che hanno funestato il «secolo breve». Gli esseri umani, infatti, non sono mai in possesso di un bagaglio conoscitivo adeguato all'esigenza di controllare il loro stesso ambiente o addirittura di concepirne uno migliore: possono solo realizzare mutamenti graduali e di modesta entità, giacché se tentano di pianificare su di una scala troppo grande sono destinati al fallimento.

Di qui il motivo per cui Hayek - che pure in gioventù aveva simpatizzato con il fabianesimo - rifiuta radicalmente il socialismo. I suoi ideali e i suoi obiettivi appartengono, a suo parere, ad un'epoca premoderna, caratterizzata dalla presenza di microcomunità territorialmente circoscritte e perciò potenzialmente omogenee; è vana, viceversa, la sua pretesa di imporre un ethos comunitario in società numericamente e territorialmente vastissime come quelle odierne, in cui l'unica moralità possibile è quella risultante dalle scelte private di ciascuno: nei fatti, il socialismo finisce con l'abolire le sole istituzioni in grado di garantire la diffusione della conoscenza individuale e quindi la prosperità, vale a dire il mercato e le imprese private, e attribuisce allo stato un potere tanto ampio da condurre presto o tardi al totalitarismo.

E' questa la parte più riuscita del libro di Gamble: un affresco unitario in cui emergono nitidamente tanto la potenza del pensiero di Hayek quanto la tensione essenziale che lo attraversa. Non diversamente da Marx, Hayek ritiene infatti che la civiltà moderna (il modo di produzione capitalistico) sia governata da meccanismi impersonali che si esprimono fenomenicamente nell'astrazione dai contenuti concreti del lavoro umano ch'è tipica dello scambio, e vede nella diffusione del lavoro dipendente (salariato) qualcosa che ne mina alla radice la base morale: se gli individui non debbono fronteggiare le incertezze del mercato e assumere la responsabilità di se stessi, non possono neanche apprendere le virtù necessarie per mantenere la cultura della «società libera». Di conseguenza, l'evoluzione sociale del mondo contemporaneo non è destinata a compiersi in un sol modo: la civiltà liberale può arrivare a distruggere se stessa.

In ciò, scrive Gamble, Hayek concorda con Rosa Luxemburg, seppure da una prospettiva opposta: «Se per Rosa Luxemburg la scelta era tra socialismo e barbarie, per Hayek era la realizzazione del socialismo a rappresentare la barbarie, cosicché la scelta non era più tra socialismo e barbarie, ma tra capitalismo e barbarie». E la conseguenza, debitamente rimarcata da Gamble, è che in quei casi in cui l'ordine liberale si trovi ad essere minacciato da parte della «volontà senza limiti della maggioranza», Hayek è disposto a mettere da parte la democrazia: un governo autoritario ma liberale (come il Cile di Pinochet, tanto per fare un esempio) è sempre migliore, a suo avviso, di una democrazia totalitaria di tipo socialista.

Regressione totalitaria

La contraddizione, a questo punto, pare flagrante: in nome della superiorità dell'ordine di mercato rispetto al socialismo, il teorico della libertà giunge ad avallare la soppressione della democrazia. Il fatto è che Hayek non attribuisce alla partecipazione degli individui alla politica la stessa importanza che assegna alla loro partecipazione alle dinamiche del mercato: poter scegliere personalmente cosa produrre e cosa consumare è, a suo avviso, enormemente più importante che eleggere ogni cinque anni qualcuno che nei cinque anni successivi compirà quelle scelte in nome e per conto di chi l'ha eletto. Sotto questo profilo, ha ragione Gamble a sostenere che, per Hayek, la libertà del mondo moderno è costretta come in una gabbia di ferro: non è che col capitalismo la storia sia finita, ma è certo, a suo avviso, che deve finire, almeno se si vuol preservare la civiltà dalla regressione totalitaria.

Resta per contro troppo vago l'accenno ai motivi per cui il pensiero di Hayek potrebbe offrire «un contributo non da poco alla ripresa del progetto socialista»: su questo punto, Gamble mantiene meno di quel che promette, sebbene si possano certo immaginare argomenti a sostegno della sua tesi (basterebbe pensare al ruolo che partiti e sindacati hanno storicamente avuto sia come strumenti di diffusione della conoscenza che come istituzioni capaci di coordinare l'azione individuale).

Quel che invece il suo libro implicitamente conferma è che non è lecito cullarsi nell'illusione, cara a molti «antagonisti», che possano darsi in rerum natura società di «liberi produttori indipendenti» che non siano governate dall'astrazione della merce, cioè del capitale: non appena ci si sottrae al dominio delle forze impersonali del mercato si approda necessariamente alla sottomissione al «potere di altri uomini» (l'aveva notato Marx già nei Grundrisse: «Strappate alla cosa questo potere sociale e dovrete darlo alle persone sulle persone»). E in fondo è questo il dilemma a cui conduce ogni vera «critica dell'economica politica»: parafrasando una battuta di Ludwig von Mises, che di Hayek fu maestro, si potrebbe dire che i nevrotici che non possono sopportare questa verità hanno chiamato l'economia una «scienza triste» - e non si rendono conto che allora sarebbero «tristi» anche la meccanica e la biologia, perché ci spiegano che il moto perpetuo è impossibile e che tutte le cose viventi sono mortali.



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