Lentamente, cinque veicoli militari scoperti attraversano una delle arterie principali della zona nord di Addis Abeba. Su ciascuna di esse, almeno una decina di uomini, tute mimetiche e cappelli rossi, imbracciano fucili mitragliatori. Le armi sono puntate sulla strada, contro le poche auto che viaggiano in questa domenica mattina elettorale nella capitale etiopica. A un tratto, i pick-up incontrano una delle lunghe file di persone in attesa di votare sin dalle prime luci dell'alba. Rallentano, i soldati, continuando a puntare sulla folla, gli sguardi fieri. Poi, dopo alcuni interminabili secondi, si allontanano. «Sono sconvolto, spaventato. Comunque andrà a finire, continuerò a chiedermi il perché di questo atteggiamento arrogante delle nostre forze speciali. Sono etiopici, come noi, dovrebbero proteggerci mentre andiamo a votare, ed invece sfilano con tono di sfida. Ci minacciano». È davvero terrorizzato, Getachew, che si è alzato di buon mattino per essere tra i primi a votare. «È una scelta del governo. Intimidire chi è andato a votare», sostiene Tadese, un giovane tassista in coda accanto a Getachew. La scena si è ripetuta parecchie volte, in molte zone della città. Nonostante ciò, circa il 90% dei 26 milioni di iscritti alle liste elettorali ha votato domenica scorsa, ordinatamente e pacificamente, in tutto il paese. Senza preoccuparsi troppo della pessima organizzazione dei seggi, delle lunghe attese, della ridda di voci riguardanti minacce ed intimidazioni che da settimane si rincorrevano. Se da qualcuno è giunta una bella prova del grado di democraticità dell'Etiopia, è stato proprio grazie alla gente.
Almeno su questo, nelle convulse giornate che sono seguite al voto, tutti sono stati d'accordo. Governo, opposizione, commissione elettorale etiopica, l'ex presidente statunitense Jimmy Carter, il team di osservatori dell'Unione europea. Per il resto, appena chiuse le urne - delle bisacce di tela verde militare con una zip - è iniziata la bagarre. Con alcuni seggi nella capitale ancora aperti, infatti, il primo ministro Meles Zenawi ha annunciato che, nell'area di Addis Abeba, tutte le manifestazioni politiche erano vietate per un mese, e che lui stesso avrebbe assunto in prima persona il controllo delle forze di sicurezza, di polizia e dell'esercito nella suddetta area. «Le decisioni del signor Zenawi sono premature, irresponsabili, e soprattutto anticostituzionali. Non ve n'era alcun motivo», ha replicato Berhanu Nega uno dei leader di Kinnjit, il principale gruppo di opposizione.
La risposta governativa non si è fatta attendere: mentre Kinnjit dichiarava di avere conquistato quasi tutti gli scranni disponibili nei collegi elettorali di Addis Abeba (riferendosi a seggi già scrutinati, risultati alla mano), l'Eprdf, partito al governo, nella notte di lunedì replicava dichiarando di avere vinto le elezioni.
Martedì mattina si è svolta la prima conferenza stampa post-elettorale della missione europea. La capo missione Ana Gomes, ricordando che le considerazioni finali verranno presentate la prossima settimana, ha comunicato che il team ha monitorato 1034 seggi su un totale di 35.000. «Per quanto abbiamo potuto verificare, le elezioni si sono svolte pacificamente. Ciò nonostante, nel periodo elettorale, alcuni elementi hanno limitato il pieno esercizio del suffragio e la libera espressione della popolazione. In particolare, minacce, intimidazioni ed omicidi sono avvenuti durante la campagna elettorale». Sul dopo-voto, la Gomes ha tenuto a precisare che il divieto a manifestare e l'accentramento dei poteri di polizia nelle mani del primo ministro sono volti a garantire un pacifico annuncio dei risultati elettorali. «Non ha nulla a che vedere con una limitazione dei diritti umani e civili».
Di opinione opposta l'opposizione, che è passata al contrattacco. «La televisione e la radio di stato (le uniche nel paese, ndr) non trasmettono il nostro punto di vista», ha dichiarato Nega. «Ad oggi siamo certi di aver conquistato la maggioranza assoluta in parlamento, dunque saremo noi a formare il nuovo governo. Né il Kinnjit, né il popolo tollereranno modifiche illegali del voto, né il pepetuarsi di un potere dittatoriale e autoritario. Se non ci sarà permesso di esprimerci tramite i media nazionali, sarà la stessa opinione pubblica a decidere come reagire. Resisteremo ad ogni tentativo di continuare in questo sistema di governo antidemocratico e dittatoriale». Il ministro dell'Informazione, contattato a telefono dal manifesto, si è rifiutato di commentare, mentre per il presidente della commissione elettorale (membro di Eprdf), Kemal Bedri, «tutte le affermazioni di vittoria, ad oggi, non hanno senso. Saremo noi a dare i risultati definitivi, entro l'8 giugno».