STORIE

Primogenitura (senza lenticchie)

LUIGI PINTOR
PINTOR LUIGI,ITALIA/ROMA

Poiché esiste da quindici anni, sembra un giornale normale. Più piccolo, meno pesante, evidentemente povero, politicamente sospetto, ma normale. Ma non era (e non è) così. Quando nacque, il manifesto quotidiano fu un'invenzione assoluta, come la pila o il parafulmine o il biciclo, sebbene meno utile e famoso. E' difficile spiegare perché, dopo tanto tempo, e magari un po' ozioso e ridicolo, come ogni cosa d'altri tempi. Ma proviamo. Nacque per una associazione d'idee, il manifesto, per l'affiorare di un ricordo di giovinezza, se non proprio d'infanzia. Il ricordo dei giornali clandestini, sotto l'occupazione tedesca, ma anche i giornali redivivi del primo dopoguerra, quelli ufficiali. Ripresero a uscire con le testate di sempre (pre-fasciste, fasciste, post-fasciste, le stesse di oggi), ma erano esili, gracili, smunti, perché come mancava la farina mancava anche la carta e mancavano le lire. Avevano due pagine, quattro pagine, fossero borghesi o fossero operai, come l'Unità. Non era lì, in stanze povere, con stipendi ridicoli e mense collettive, e doppi lavori, che avevamo imparato il mestiere? E non erano stati tuttavia quei giornaletti altrettante bandiere o portabandiere, armi incrociate, ossatura dei partiti politici e delle classi in lotta, facitori di opinione nei mesi di incubazione della repubblica, del nuovo stato, del secondo risorgimento da coronare, della guerra che da calda diventava fredda?

Dunque si poteva fare anche nel 1971, come nel 1946, un quotidiano di quattro pagine, senza soldi, senza redazione, tutto politico, colonne di piombo - di idee? di notizie? di mobilitazione? - che si snodassero ogni giorno come un serpente, da cima a fondo. Eravamo seduti una sera a chiacchierare da qualche parte, non ricordo chi c'era oltre a me e a Luca Trevisani, quando questa associazione di idee ci colpì in modo altamente eccitante. Per forza, all'Unità avevamo vent'anni (pressappoco), ora ne avevamo più del doppio. Allora c'era stata la guerra che ci aveva riguardato moltissimo, adesso c'era stato il `68 che ci riguardava molto meno, ma erano due cicli simili nell'effetto di stimolo e nella dose d'inganno che contenevano entrambi.

Che idea bizzarra. Nel `46 quella era la norma, e dietro ogni giornale esiguo c'era una potenza finanziaria o politica. Nel `71 il paesaggio editoriale era imponente e fastoso e recintato da altissimi fili spinati e corrente elettrica ad alta tensione, anche i giornali della sinistra erano una potenza, una istituzione. Un foglio senza capitali, senza partito, un giornale per tutte le Russie senza rivoluzione? Che idea bizzarra, uno strillo nel deserto, un pollo spennato nel florido mercato del capitalismo sviluppato. Fatto da quattro gatti, allora andava di moda la zoologia allusiva.

Chi li paga? Quanti mesi durerà? Chi lo scriverà?

Bisogna far mente locale. Più tardi ne nasceranno altri di piccoli giornali alternativi per così dire, e anche di grandi giornali nazionali non alternativi per così dire, ma allora era l'invenzione dell'ombrello. (Come le elezioni: nel `76 tutti sono diventati istituzionali e hanno infilato carcerati nelle loro liste, ma nel `72 finivi linciato). Trovate le stanze senza luce di via Tomacelli, la tipografia scassata lì sotto, la rotativa preistorica, la geniale semplicità grafica di Giuseppe Trevisani - mezzo miniatura settecentesca, mezzo boato operaio-studentesco-cinese - il solo interrogativo che non trovava nella mia testa una risposta certa non era per nulla politico e neppure finanziario ma protomercantile: come si fa a distribuire per tutta la penisola un giornale senza peso, di pochi grammi, che si impacca male, si maneggia peggio, si sgualcisce a guardarlo, scomparirà sotto le montagne di carta stampata nelle edicole, nei vagoni ferroviari, nei camioncini?

Per il resto, bastavano 45 milioni di sottoscrizione, 30 mila copie a 70 lire, 35 lire di guadagno per 30 mila facevano una cifra pari alle spese calcolate di carta, stampa, x sottostipendi (venti, trenta, non mi ricordo più), fitto, telefono, ecc...: un calcolo esatto al millimetro o alla lira, per molto tempo non ci fu passivo che una sottoscrizione non coprisse facilmente. Senza pubblicità, nudi come vermi. Era bello camminare sulle proprie gambe. Eugenio Scalfari, quando racconta di Repubblica, paragona volentieri la sua impresa a quella di un'armata stracciona che si affaccia sulla pianura padana per affrontare eserciti agguerriti e vincerli: avevamo solo capitali per tre anni, aggiunge. Gli sembrano bruscolini. Il suo è il primo grande giornale nazionale italiano (gli altri o sono loro malgrado di partito, come l'Unità, o sono prevalentemente regionali, come il Corriere), ma l'ottimo Scalfari non ha l'idea più pallida di cosa sia un'armata Brancaleone. Vedi mai, forse non si sarebbe imbarcato in quell'impresa se il paesaggio editoriale non fosse già percorso dalla guerriglia di straccioni veri.

Naturalmente, il manifesto quotidiano non nacque solo per associazione di idee (dentro di me, non ho mai perdonato al Pci e all'Unità di non aver capito che noi riproducevamo una esperienza comune di gioventù). Nacque per il bisogno politico di essere presenti, come gruppo o sistema di idee o quel che volete, una volta estromessi dal partito e privi di una organizzazione consistente (non fu diversa, per me, la logica della disavventura elettorale). Ma nacque come operazione specifica, giornalistica, se un giornale non è un lenzuolo scritto, un mero strumento di qualcos'altro, un bollettino idiota, ma un prodotto politico-culturale che ha in sé la proprietà virtù, un modo di associazione per chi lo fa e per chi lo legge, una forma della democrazia, e anche un potere. Una cosa difficile da capire, specie in un universo di sinistra e di ultrasinistra afflitto da mania organizzativa, affamato di azione fine a se stessa, digiuno dei misteri delle comunicazioni di massa.

Infatti il manifesto, nato troppo a sinistra, ha sempre sofferto di una schizofrenia, metà giornale e metà partito. Non ha mai avuto né l'orgoglio né la consapevolezza di essere una invenzione anche tecnica, per il suo modo improprio di lavorare, di trasmettere messaggi, di riceverne, di crescere o di non crescere su se stesso. E di essere perciò, e non malgrado ciò, veicolo efficace di un patrimonio politico preesistente. Ci sono voluti molti anni, e molte disavventure intestine, perché questa schizofrenia cedesse il passo alla difficile riaffermazione, anno dopo anno, delle ragioni di esistenza di questo giornale in quanto strumento originale e autonomo di informazione e di orientamento.

Che fatica, questo adeguamento «mercantile» del giornale, sei, otto, dodici pagine, riforme e controriforme. E che rischio di perdita di identità, di oscillazione politica, di sfilacciamento culturale. E che disordine, sotto il cielo. E come si sente che non siamo nel `46 né nel `71, che la «sinistra» non è in grado di nutrire, di finanziare (autofinanziare) propri giornali, che il mercato è spietato e non tollera ibridi. Forse ce l'avremmo fatta, con tempestività, senza la trappola del prezzo politico sommato al miraggio della legge sull'editoria: a prezzo libero, qualche anno fa, si sarebbe visto se la virtù di questo giornale bastava o no a farlo vivere, a conservargli un sostegno perenne, come in quel giorno che quarantamila persone lo sostennero con 10 mila lire emblematiche (ma sonanti). Signori, la libertà costa cara. Oggi non si sa. Non si può ripetere l'invenzione della pila. Non ogni quindici anni. Non con la canizie. Largo ai giovani di spirito, qui e fuori di qui, se ci sono e se ancora gli serve una testata familiare e onorata, sebbene (o appunto perché) quarantottesca d'origine.

29 aprile 1986

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