Bouthaina Dawood, palestinese, è psicologa dell'infanzia. Vive a lavora a Betlemme in uno degli asili dell'Unione dei Comitati delle Donne Palestinesi (UPWC), organizzazione laica e progressista che da più di vent'anni supporta le donne palestinesi nel loro lotta di liberazione. Da dieci giorni in Italia, sarà a Napoli sabato alle 18 presso il Laboratorio Occupato Ska in piazza del Gesù Nuovo.
Qual è il ruolo della donna in Palestina, e quali gli obiettivi della sua lotta?
Esistono due posizioni che estreme, la prima prevede che la donna ottenga gli stessi diritti dell'uomo e abbia lo stesso valore. La posizione dell'Islam è opposta, la donna vale metà dell'uomo. Per quanto riguarda noi donne dell'UPWC, cerchiamo la via di mezzo poiché, se è vero che la donna deve avere gli stessi diritti dell'uomo, è altrettanto vero che, a causa dell'occupazione israeliana, neanche l'uomo vale uno. Noi non vogliamo semplicemente che la donna venga inserita in ruoli di rilievo. Ma pretendiamo che la donna impari a pensare, vogliamo fornire oggi gli strumenti per la lotta che affronteremo domani, quando avremo uno stato libero. Oggi cerchiamo di ottenere alcuni diritti fondamentali, che l'eredità possa essere ripartita in parti uguali, ma anche una giustizia più equa.
Quali sono le difficoltà delle donne e come le affrontate?
Le donne soffrono come gli uomini tutti i problemi dell'occupazione: violenze, distruzione, lutti e disoccupazione. Ma soffre anche i problemi legati alla sua specifica condizione. Per le donne è ancora più difficile trovare un lavoro, sono più soggette ad abusi e violenze anche di tipo sessuale da parte dei soldati israeliani. E poi ci sono i problemi legati al ruolo di educatrici dei figli. Dall'inizio dell'Intifada di Alaqsa sono sempre più i bambini che soffrono di problemi psicologici, aggressività, depressione. L'UPWC costruisce asili che co-gestisce con le famiglie e forma il personale scolastico. Svolge lavoro di supporto psicologico ai bambini e alle donne attraverso delle terapie di gruppo. In campo economico abbiamo costruito progetti che diano la possibilità alle donne di poter lavorare, laboratori autogestiti per ricamare tessuti, confezionare borse e vestiti.
Nella cultura palestinese la religione ha trovato sempre spazio, senza l'integralismi. A inizio anni '90, compare il velo e Hamas, sembrano sparire i Comitati Popolari. Cosa è successo?
Hamas viene creato da Israele per destabilizzare l'OLP e per creare caos all'interno dei territori palestinesi dove, dopo la fine della prima Intifada, è incominciato un profondo lavoro di rinnovamento della società, di ricostruzione delle infrastrutture e non solo, poiché tutto era distrutto. Hamas ha molto denaro, apre mense, asili, fa lavorare i disoccupati. Questo gli ha permesso di essere presente e visibile e quindi di poter allargare la sua base di consenso. Ma il problema principale è un altro. Nell'ultimo decennio la dirigenza dell'ANP ha lavorato su trattative di pace che il popolo palestinese non è disposto ad accettare, perché penalizzano alcuni diritti fondamentali (diritto al ritorno, Gerusalemme, colonie...). In questo senso Hamas, creata per delegittimare la resistenza dei palestinesi, ha forse interpretato più coerentemente che l'ANP le aspirazioni politiche del popolo. Ma fortunatamente non è l'unica.
È possibile azzardare paragoni con le lotte della donna in occidente?
Il paragone è quasi impossibile, non solo per le differenze culturali, ma soprattutto perché non vogliamo impostare la lotta allo stesso modo: non vogliamo la rivoluzione sessuale. Perché questa è stata strumentalizzata, anche per fini commerciali. Riteniamo inaccettabile che per vendere una birra si debba esporre un corpo di donna nudo.