Con Liv Ullmann - attrice e regista norvegese troppo nota a tutti per dover essere descritta ( ha persino diretto pellicole scritte da Ingmar Bergman ), ma anche presidente della Fera (la federazione degli autori e registi europei ) - ci incontriamo appena usciti dal cinema Politeama di Viareggio dove, nell'ambito del Festival di Europacinema, abbiamo visto un film, opera prima del regista Davide Ballerini, che a lei è piaciuto molto. «È un pugno alla testa e non allo stomaco come ha commentato qualcuno» - dice a proposito del durissimo Il silenzio dell'allodola, un film ispirato a Bobby Sand. E che però prescinde dal contesto storico in cui il militante dell'Ira trovò la morte al termine di un lunghissimo sciopero della fame perché vuole simboleggiare ogni violenza perpetrata su prigionieri politici. «Sembra impossibile sia stato girato prima che ci siano arrivate le immagini di Abu Ghraib - continua Liv - alcune scene sembrano fotogrammi di quella tragedia. Non so cosa stia accadendo all'umanità. L'uniforme di criminali che gli irlandesi rifiutavano, per far valere lo status di prigionieri politici che veniva loro negato, la fanno indossare anche ai disgraziati che traversano clandestinamente la frontiera americana, tutti criminalizzati. I film sono forse il solo modo che abbiamo per sforare la cortina di silenzio eretta da tv e establishment politico: perché non si tratta di discorsi ma di storie e la gente è più disposta a ascoltare, parlano al cuore e ognuno si sente coinvolto, osserva le proprie reazioni. Questo piccolo film italiano dovrebbe essere distribuito, dobbiamo adoperarci per farlo vedere ovunque».
«Quando ero ragazzina e vivevo in una cittadina norvegese, educata da una madre molto conservatrice - racconta - mi capitò di vedere Umberto D, Miracolo a Milano, Ladri di biciclette: hanno cambiato la mia vita, mi hanno preso per mano e fatto scoprire un altro mondo. Quello che provo oggi è tuttora influenzato da quelle pellicole e mi vien male a pensare che i bambini di oggi non hanno questa opportunità, affogati come sono da pessimi programmi tv e cartoni, dai videogames. Anche ora ci sono film che ti dicono cosa è davvero il mondo, sebbene più rari di allora, ma sono quasi invisibili per la maggior parte dei bambini».
Chiediamo a Liv Ullmann, che oggi vive molto in America per ragioni familiari, e però è anche presidente della Fera e dunque si occupa seriamente di cinema europeo: che succede al di qua e al di là dell'Atlantico dove è diventato più difficile trovare film come quelli appena citati? «Tutto è sempre più mercificato, tutto è ridotto al danaro - risponde - E gli europei sanno che per ottenerlo devono girare in inglese per conquistare una fetta del grande mercato, usare attori e attrici americani che fanno parte dello star system. E anche le coproduzioni non sono quasi mai scambio culturale ma solo spartizione di contributi e profitti. Anche io mi trovo alle prese con questa storia dell'inglese obbligatorio: per girare un film devo accettare il diktat. Ma so bene che sarebbe un'altra cosa se fosse parlato in norvegese. Non si può perdere il suono della voce dei popoli, non cogliere la diversità. Altrimenti si perde il profumo, il senso della storia. Il suono è parte integrante dell'opera. Molti parlano di diversità culturale e meno male, perché preservarla è un compito essenziale e anzi bisognerebbe far molto di più per difenderla dalle insidie del negoziato Gats, far capire che l'arte non può esser commercializzata come la verdura; ma poi finiscono tutti per accettare l'omologazione». Qualcuno cerca di costruire uno star system europeo, per competere meglio con Hollywood... «In Europa c'è un dato che non deve essere perduto: le attrici riscuotono più rispetto, non sono trattate come cose, solo per come appaiono. Alcune che lo ottengono, certo, ci sono anche li, basti pensare a Meryl Streep. Ma qui, per fortuna è più generalizzato. È un dato che non andrebbe perduto e le vecchie grandi attrici dovrebbero insegnar loro a salvaguardare la loro dignità». Vorrei condividere con te un po' di ottimismo: non credi che negli ultimissimi tempi, e anche molto grazie ai movimenti altermondisti, si sia creato un circuito indipendente che ha rotto la cappa dell'omologazione, ha messo in contatto storie e personaggi di continenti diversi, una rete che riconosce la diversità ma produce anche dialogo? «Sì, certamente. E infatti oggi sentiamo di più i continenti lontani, l'Africa, l'Asia, l'America Latina: la loro creazione, i loro attori. Dieci anni fa nessuno sapeva che c'era cinema e teatro nel Burkina Faso, tanto per fare un esempio. Persino negli Stati uniti va un po' meglio. Ti racconto una mia esperienza: Sony Classic ha accettato di distribuire un mio film, Sarabanda e lo aveva programmato per novembre. Poi a un certo momento hanno deciso di farlo uscire a giugno, che in America è altissima stagione. Perché anche lì la gente ha cominciato a stufarsi dei soliti film delle majors, che vuol vedere alternative».
Il lungo mare di Viareggio con le sue tante vecchie sale cinematografiche nelle palazzine costruite dagli architetti dell'epoca floreale di inizio secolo, accanto alle spiagge ancora chiamate «Bagni», con le sue biciclette e i suoi passanti lenti, i suoi pigri caffè, incanta Liv. Qui è arrivata da Miami. «Vedi - mi dice - cosa è la diversità culturale? Anche qui, come in Florida, ci sono le palme lungo i viali, eppure è un altro mondo. Paradossalmente Viareggio è più simile alla mia Norvegia che a Miami. È l'insieme che conta».
Liv Ullmann è qui per tenere, anche lei, una delle lezioni di cinema che sono la tradizione di Europacinema, presentando il suo L'Infedele. Ma anche per festeggiare i 90 anni di Mario Monicelli, con cui lei ha girato un film vent'anni fa, Speriamo che sia femmina. Le racconto che Mario, sapendo che in suo onore si sarebbe tenuta qui una retrospettiva dei suoi film, ha chiesto: «perché, Monicelli è morto?». Liv scoppia in una sonora risata. Subito ritratta da un passante col telefonino. «Come per il papa morto, i telefonini» - commenta.