VISIONI

La scandalosa voce a sé stante di Remitti

LORRAI MARCELLO,MILANO

Quando è ragionevolmente tempo che il concerto si concluda, il manager attraversa la scena, le stringe affettuosamente le spalle e cerca di indirizzarla verso il backstage. Niente da fare. Cheikha Remitti si svincola agilmente e attacca un altro brano, nel tripudio degli spettatori accalcati di fronte a lei, poi un altro ancora. E finalmente il manager può ripetere l'operazione, questa volta con successo. Remitti è in una di quelle serate che è difficile farla smettere: alla veneranda età di 82 anni, sta sul palco con la gioia compiaciuta di una bambina al centro dell'attenzione. Certo la confezione pop della musica smussa di molto quello che di sconvolgente, lacerante, scabroso la sua voce ha rappresentato, certo qui siamo al C-Side di Milano, e non in una di quelle feste dedicate ai «santi» protettori, come Sidi Abed, feste in realtà non proprio sante («Sidi Abed, meraviglioso luogo della goduria», canta Remitti a suo tempo), di cui la più famosa delle cheikhates è stata nell'Algeria di cinquant'anni fa una assai richiesta e allo stesso tempo famigerata animatrice. Ma in ogni caso fa effetto pensare che quella nonna dall'aria così gioviale, quella bonaria, arzilla vecchietta che ballonzola sul palco con una cintura che le stringe la tunica mettendo in risalto senili pinguedini, possa essere stata la pietra dello scandalo nel suo paese. Scandalo vero, per l'Algeria dei suoi anni più verdi, non gli scandaletti a cui oggi abbiamo fatto il callo: in quell'Algeria, Remitti assurge a simbolo di una licenza che fa tremare le basi morali della società, è il nome su cui più tardi, in piena era di accanita discussione sul raï, ci si accapiglierà non senza prese di posizione di dirigenti di rilievo dell'Fln, qualcuno anche a sua difesa, a difesa cioè di una artista rivendicata come un pezzo importante del patrimonio culturale nazionale. Nel `92, sulla stampa algerina, ci sarà chi utilizzerà l'espressione «remittismo» per puntare il dito accusatore contro il raï come dissolutore dei costumi e corruttore della gioventù, e paragonerà Remitti all'alcol dato agli indiani per sterminarli meglio: insomma Remitti come quinta colonna del colonialismo francese. In realtà Remitti è il rimosso del regime a partito unico uscito vincitore dalla guerra di liberazione, che ha voluto censurare quel fondo oscuro, complesso e sempre riemergente di pulsioni sessuali, di tensioni psichiche (messe violentemente in vibrazione dal trauma del colonialismo), di paganesimo, che non quadravano con il puritanesimo, il socialismo statalista e la schematica identità arabo-islamica imposti dall'Fln.

Sul palco, con la sua coroncina dorata sulla fronte, Remitti appare sovranamente superiore. Ma lei e le cheikhates hanno pesantemente sofferto il loro status di figure ambiguamente desiderate/vituperate, un po' come lo sono le prostitute. Quella sorta di rischiosa extraterritorialità che da un lato consente alle cheikhates di assumere ruoli non permessi alle altre donne e che allo stesso tempo vale loro la riprovazione della società, è sintetizzata dalla straordinaria voce di Remitti, che ancora riesce a «bucare» il trattamento moderno che addolcisce la sua arte e la rende meno spigolosa ed ipnotica e a colpire l'ascoltatore nei suoi concerti di oggi. Che Remitti e le cheikhates sfoggino tradizionalmente tratti vocali maschili, è un fatto che esorbita dal dato banalmente timbrico: è la cristallizzazione sul piano vocale di un'identità al confine o al di là del genere femminile convenzionalmente definito. I loro comportamenti non conformisti, per quanto censurati, possono essere almeno tollerati proprio perché collocati in una dimensione che non è quella propriamente femminile: una sorta di sesso a sé stante. Con il suo temperamento vocale al centro, la musica di Remitti non è affatto inadatta a un maquillage contemporaneo, come si è visto dai suoi ultimi album, e più i suoni elettrici sono perentori e meglio è. Fra basso, tastiere, chitarra, gasba (flauto), derbuka e batteria, qui è solo quest'ultima a suonare incongrua: stenta a riempire in maniera plausibile il dinamico ritmo del raï classico di Remitti, è strutturalmente inadatta a tenere il passo dell'agile derbuka, e comunica un che di faticoso e pesante, di goffo e sgraziato: una zavorra più che un elemento propulsivo come una batteria dovrebbe essere. Con o senza aggiornamenti, il raï arcaico di Cheikha Remitti, e il raï in generale, rimane una delle espressioni più moderne di un panorama musicale arabo per la verità non troppo ricco di forme innovative.

In apertura della sua 15ma edizione, «Suoni e Visioni» ha felicemente accostato a Remitti un'artista che aspira al nuovo, la palestinese Kamilya Jubran, cantante e suonatrice di ud, affiancata dallo svizzero Werner Hasler, elettronica. Il duo, che ha all'attivo un pregevole album, Wameedd, in attesa di una valida distribuzione internazionale, propone una musica sofisticata, in cui al pathos della cantante fa da contrappunto l'uso sottile, rarefatto dell'elettronica di Hasler. La Jubran ha studiato musica araba classica, in particolare di scuola egiziana, con il padre, musicista e liutaio, a Gerusalemme, dove per vent'anni ha poi lavorato con un gruppo palestinese. Negli ultimi anni ha cercato nuove strade. «Dopo Oum Kalsoum, di cui ho cantato molto il repertorio, dopo Mohamed Abdelwahab - ci spiega - che cosa si può cantare, quali mezzi possiamo avere per esprimere la nostra vita di oggi? È questa la domanda che mi sono fatta». Poi nel 2002, a Berna, nel corso di una residenza finanziata dalla Pro Helvezia, le è stato fornito un elenco di artisti che poteva contattare, fra cui Hasler, con cui c'è stata un'intesa immediata. «Il rapporto via via è cresciuto, la musica è diventata più minimalista e profonda: abbiamo cercato di trovare una lingua che fosse al di fuori della world music, che stesse lontana dai cliché. Il risultato ci è venuto naturale, e un anno fa a Berna abbiamo fatto il primo concerto in duo. Sono affascinata dalla musica elettronica, perché consente di avere uno spazio, una libertà di scelta, che è più difficile ritagliarsi con la musica acustica. Con l'elettronica , posso lavorare con i dettagli, creare un ambiente mentale che il pubblico sente».

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