VISIONI

Jazz che non si pente

LORRAI MARCELLO,NOVARA

Ci sono modi diversi di volgersi indietro a ciò che ci ha preceduti, e quello di Dave Burrell certo non si confonde con gli atteggiamenti tristemente passatisti, nostalgici, pentitistici che purtroppo abbondano nel jazz di oggi, di chi cerca consolazione nell'antico e non ha il coraggio del proprio tempo. Coraggio che del resto il sessantaquattrenne pianista statunitense ha largamente dimostrato accanto a Grahan Moncur e a Pharoah Sanders, all'Archie Shepp `69 della calda estate del canto del cigno del free jazz, tra Festival Panafricano di Algeri e la Parigi delle mitiche incisioni per la Byg, all'indimenticabile Sonny Sharrock. Oggi Burrell è lontano dagli eroici furori di quella stagione, ma del resto aveva mostrato interessi non esattamente riconducibili al free jazz (Puccini) in tempi non sospetti, e la sua passione per Jelly Roll Morton è di vecchia data. In forma, gioviale, Burrell, in Italia per alcune date, si è esibito fra l'altro in due set nel raccolto Auditorium del Conservatorio Guido Cantelli di Novara, nell'ambito del Novara Jazz Festival (ai primi passi e ben orientato: lo scorso anno il duo Cooper-Moore/Assif Tsahar e una conduction di Butch Morris, quest'anno prima di Burrell il trio di Matthew Shipp).

Quello di Burrell è un pianismo di grande economia, asciutto, ma nello stesso tempo non severo, anzi con il sorriso sulle labbra, spesso apertamente ironico, come quando mette una melodia a passo di marcia, prima di disarticolarla. Frugale, a volte scarno, nel suo risparmio il suo stile esclude in un colpo solo il virtusismo, lo stucchevole jazzisticamente corretto, il sentimentalismo: quando prende la direzione del lirismo, il vitalismo prevale pur sempre sulla malinconia. Intercala i brani con qualche chiacchiera cordiale, e di una composizione originale che in effetti presentava qualcosa di volutamente meccanico nell'andamento, spiega che gli è stata ispirata dall'esperienza di un lavoro di fabbrica, tipo catena di montaggio (e Burrell appoggia sulla tastiera delle mani imponenti, dei badili più da operaio che da pianista). C'è aria di rag, di stride, di accompagnamento di film muti, di pianismo arcaico: per esempio nel modo di staccare le note una dall'altra, di scandire l'accompagnamento sulle note basse con la mano sinistra. Ed è bello sentirgli confessare che per quanto riguarda le sue linee di basso ha un debito nei confronti di Nina Simone. Billy Strayhorn (Lush Life), Irving Berlin, l'amato Morton, raccontando di Jelly Roll che dice ad Alan Lomax che non hai il giusto feeling jazzistico se non c'è lo «spanish tinge», quindi un brano suo ma ispirato a Beiderbecke: tutto lontano da banali mimetismi e dall'uso edonistico della tradizione. Poi una My Funny Valentine stralunata e senza compiacimenti, che fa immaginare una Nico a cantarla.

Nel passato si può anche trovare, volendo, la chiave per essere moderni.

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