Dall'America è giunta nei giorni scorsi la notizia del clamoroso divorzio artistico tra Peter Lewis e Thomas Krens, rispettivamente presidente e direttore del Guggenheim Museum. Le dimissioni di Peter Lewis, settantenne miliardario, con una passione assai sbandierata per la marijuana, che nel corso dei sei anni della sua presidenza ha versato nelle casse del museo ben settantasette milioni di dollari, sono arrivate alla fine di un lungo attrito tra i due e dopo il rifiuto dei trustees di rimuovere Krens dall'incarico. Il motivo del contrasto sembra sia stato proprio il progetto che Krens porta avanti da anni: l'idea di museo globale con l'incessante apertura di filiali in tutto il mondo. Perché - si è chiesto Lewis - se il franchising è una buona idea non è stata adottata da altre grandi istituzioni museali? Se la domanda fino a poco tempo fa era lecita, è stata superata dall'annuncio del primo progetto francese in questa direzione: con il sostegno diretto del presidente Chirac, il Beaubourg ha chiesto alle autorità di Hong Kong di costruire la sua prima succursale nel futuristico West Kowloon Cultural District, dove sotto un cielo di plastica trasparente dell'architetto Norman Foster sorgerà un quartiere di musei appaltato in franchising alle più importanti istituzioni mondiali, tra le quali il Guggenheim, il Musée d'Orsay, il Victoria and Albert e il MoMA. L'idea di museo globale, inaugurata da Krens, ha quindi vinto, superando anche le resistenze dei musei pubblici francesi, che si sono appropriati del modello americano ribadendo al tempo stesso la loro superiorità culturale rispetto alle modalità di gestione dei musei privati americani, che l'ex direttore del Centre, Alfred Pacquement, ha definito «da industria della Coca Cola». Comunque, al di là della querelle franco-americana, la scelta di Hong Kong di affidare a istituzioni straniere la creazione e la gestione di musei pone degli interrogativi sulla natura e sulla finalità della secolare istituzione. La sensazione di colonialismo culturale proprio in una ex colonia britannica di atmosfera internazionale non basta a spiegare il fenomeno, che ha una portata culturale molto più rilevante. Innanzi tutto nessuno si è chiesto cosa debbano contenere questi musei. Ci si affida alle grandi istituzioni dalle quali probabilmente ci si aspetta da un lato che arrivi qualche capolavoro universalmente riconosciuto, di quelli che creano lunghe file all'entrata, dall'altro una struttura architettonica sfavillante, capace di per sé di attrarre folle di turisti, come è stato il caso del Guggenheim di Bilbao a cura di Frank O. Gehry.
C'era una volta il museo che Paul Valery definiva «una solitudine tirata a cera, che sa di tempio e di salotto»: ora la diffusione del modello di intrattenimento ha trasformato i musei in aree del divertimento di massa, «in parchi a tema con quattro attrazioni: buona architettura, buona collezione permanente, esposizioni temporanee, e negozi e ristoranti» (Krens dixit). L'intrattenimento è divenuto l'alternativa allo spauracchio del museo/mausoleo e si sta sostituendo alla funzione educativa. L'apertura ad attività spurie anche per un pubblico non specialista non è nuova: nasce nel clima di attivismo sociale e deflagra nel 1976 con la creazione del Centre Beaubourg Georges Pompidou, museo/foro dove accanto alla zona espositiva trovano posto una biblioteca (Bpi), un Centro di creazione industriale, un centro di ricerca musicale (Ircam), una sala cinematografica, spazi dedicati all'attività didattica per bambini e un'area commerciale. Da allora la nostra idea di museo è cambiata radicalmente: da luoghi polverosi e bui, i musei sono divenuti posti à la page per studiare, incontrarsi, fare shopping, mangiare, assistere a dibattiti e passeggiare tra le opere d'arte.
Lo sforzo per coinvolgere un pubblico nuovo ha avuto un successo trascinante per numero di presenze, superiori al doppio al previsto, e ha svelato le enormi possibilità di sfruttamento commerciale del museo. La crisi economica e i tagli finanziari degli anni Ottanta hanno accelerato il processo di trasformazione del museo in industria con l'ingresso di sponsor privati e di modalità organizzative, gestionali e imprenditoriali per stimolare la domanda e adeguare l'offerta. Il museo ha iniziato a considerare il visitatore come un cliente/consumatore e ha impiegato tutti gli strumenti del marketing e della promozione per attrarre la sua attenzione, cercando di vincere la competizione con gli altri luoghi dell'intrattenimento culturale. I tradizionali compiti di studio, di conservazione e di esposizione della collezione sono passati lentamente in secondo piano rispetto ad attività di maggiore redditività come le mostre temporanee. La concezione del museo come multinazionale dell'arte non nasce quindi dal nulla ma dalla sua trasformazione in impresa. E, come un'azienda che per aumentare la produttività apre nuove sedi, il Guggenheim, sotto l'azione di Krens, ha aperto a Berlino, a Bilbao e a Las Vegas. Il moltiplicarsi delle filiali determina l'aumento dello spazio espositivo per le mostre itineranti e l'apertura di nuovi mercati di vendita di gadget collegati. Ciò genera l'aumento delle entrate e l'abbattimento dei costi relativi alla cura della mostra (tempo di organizzazione, spese per i prestiti e le assicurazioni) e alla produzione di cataloghi, cartoline, segnalibri e via dicendo. Il lavoro professionale di conservazione e curatela è centralizzato nella sede americana, che riduce l'immobilizzo e il costo di opere nei depositi con la creazione di fantomatiche collezioni da esportazione, a discapito di una specificità territoriale delle filiali.
Altre grandi istituzioni museali che vantano diverse filiali sul territorio nazionale, come la Tate e il MoMA, per essere competitive sul mercato hanno preferito da un lato rinnovare gli spazi, dall'altro affrontare la spinosa questione di una revisione dei canoni espositivi della collezione. Il dibattito sul museo, sorto in parallelo alla sua trasformazione degli anni Ottanta e prevalentemente dal terreno dei Cultural Studies, ha infatti sollevato dubbi sulla neutralità dello spazio espositivo. Ciò che si espone determina sempre la costruzione e la trasmissione di una conoscenza. La riflessione su questi temi, nasce dalla caduta dei confini disciplinari e, imbevuta del pensiero di Michel Foucault, mira a smascherare le strutture, i rituali e le procedure. Di conseguenza ha messo in discussione i criteri universalmente accettati della tassonomia illuminista, disintegrando il «mito razionalista» del museo: quest'ultimo è pertanto divenuto il luogo fisico per una riflessione e un ripensamento dello scopo, della direzione e dei limiti delle categorie tradizionali, insomma «uno spazio critico». Nelle strategie dell'allestimento emerge il vero problema epistemologico: chi ha diritto di decidere cosa esporre e come farlo? La modalità della presentazione produce un effetto determinante su ciò che è messo in mostra e sancisce l'esito della visione. L'effetto museo è un modo di vedere, affermava la studiosa Svetlana Alpers durante il convegno nel 1988 allo Smithsonian Poetics and Politics of Representation, seminale per l'evoluzione di tali temi: la scelta dei criteri diviene fondamentale per la rappresentazione o l'interpretazione della storia che si vuole fornire. E le storie possono essere tante, come il postmodernismo ci ha insegnato, perché legate a un determinato punto di vista soggettivo, culturale, etnico e di genere. Il museo non è un'ampia cornice attraverso cui l'arte e la cultura del mondo possono esporsi al nostro sguardo bensì una lente focalizzata che mostra al visitatore un punto di vista particolare. Su questa consapevolezza influì in maniera determinante il problema della rappresentazione delle culture «altre» sollevato negli allestimenti dei musei etnografici. La questione di fondo, che è anche il punto nodale del postmodernismo critico e una delle implicazioni politiche centrali delle teorie dell'interpretazione, era legata alla riappropriazione della propria storia da parte delle minoranze. Il terremoto suscitato dalla riflessione sulla rappresentazione della cultura «altra» e dalla consapevolezza della natura interpretativa dell'atto di esporre ha influenzato inevitabilmente i musei d'arte, già sottoposti alla revisione dei canoni modernisti. L'incredulità nei confronti delle metanarrazioni ha messo in crisi la storia dell'arte e il tradizionale percorso espositivo lineare e cronologico all'interno del museo. Nuovi modelli espositivi sono stati formulati per aprire il museo a diversi percorsi. L'allestimento in chiave tematica della collezione di arte contemporanea, per la nuova sede della Tate di Londra a Bankside, aperta qualche anno fa, rappresenta uno dei più recenti tentativi di aggiornamento al dibattito critico sull'autorità dell'istituzione e sulla revisione del canone. La strategia espositiva tematica ha reso possibile la creazione di una moltitudine di percorsi liberi, a scelta del visitatore, ma soprattutto ha favorito, con il cambiamento di prospettiva, l'attualizzazione di opere storicizzate. Forse più di altre istituzioni, il museo si erge a segno dei tempi nella sua sintesi di spettacolarità commerciale e di arena di dibattito, per la sua caratteristica unica di rendere visibili le idee. Il numero complessivo non solo è cresciuto (se ne contano circa trentacinquemila disseminati nel mondo), ma si è diversificato nelle forme e nei contenuti, affrontando soggetti controversi, come l'Olocausto o la fame.
E in Italia cosa accade? Il fenomeno della trasformazione del museo in senso commerciale, se si escludono le grandi mostre e l'apertura dei servizi aggiuntivi avvenuta con la legge Ronchey, non sembra avere davvero attecchito, ma molto più grave si rivela invece l'assenza quasi totale di una riflessione teorica sul museo sia dentro che fuori degli spazi accademici. In questo quadro certo non confortante, fa tanto più impressione trovare tra gli scaffali delle librerie italiane ben quattro pubblicazioni uscite di recente e quasi in contemporanea, dedicate al museo: Comunicare nel museo di Francesco Antinucci (Laterza, pp.168, euro 24), Lo spazio critico di Federico Ferrari (Luca Sossella, pp.106, euro 10), Museo. Storia di un'idea di Karsten Schubert (il Saggiatore, pp.222, euro 19) e infine, freschissimo di stampa, ancora per il Saggiatore, I musei e la formazione del sapere di Eilean Cooper-Greenhill (pp. 286, euro 30). E se i volumi di Schubert e Hooper-Greenhill rappresentano, nell'attuale studio della museologia, quasi dei classici, pubblicati in originale rispettivamente nel 2000 e nel 1992 e approdati quindi da noi con diversi anni di ritardo, i testi di Antinucci e di Ferrari rivelano come finalmente anche in Italia - nonostante l'apparente indifferenza di gran parte dei curatori - si stia delineando una riflessione critica sulle teorie e sulle modalità della trasmissione di cultura all'interno dell'istituzione-museo. Entrambi gli autori infatti leggono il museo con la padronanza acquisita degli strumenti del dibattito internazionale: così Antinucci analizza il meccanismo di comunicazione che avviene nel museo, mentre Ferrari sottolinea l'importanza del ruolo del critico all'interno dello spazio museale. E una riflessione sui modelli espositivi propongono anche recenti iniziative come il terzo ciclo di incontri della serie «Art Highlights» curato da Dobrila Denegri al Macro di Roma, che nel 2005 ruota intorno al tema Show and Display: La mostra ideale (vi partecipano fra gli altri Iwona Blaswick, direttrice della Whitechapel Gallery di Londra, e Hans Ulrich Obrist, curatore dell'Arc di Parigi). O come il calendario di conferenze organizzate dalla Nuova Accademia di Belle Arti di Milano sotto il titolo The Utopian Display, a cura di Mario Scotini e Maurizio Bortolotto, che vedrà la presenza di Catherine David, direttrice del Witte de With Centre for Contemporary Art, Jens Hoffmann, direttore del londinese ICA, Roger M. Buergel, futuro direttore di Documenta Kassel, e di altri curatori d'arte. Che anche qui stia cambiando qualcosa?