VISIONI

Tutto quello che Israele non sa vedere

DI GIORGI SERGIO,MILANO

«Sguardi altrove», dodicesimo festival di cinema a regia femminile diretto da Patrizia Rappazzo, insegue ancora una volta le incerte frontiere euromediterranee (con i titoli del concorso «Nuovi sguardi-premio Smemoranda», e c'è anche un film italiana in gara, Iguana) e quelle, attraversate sempre più da paure che da sogni, dell'esplosivo scenario mediorientale, con opere recenti da Palestina, Israele, Libano (allo Spazio Oberdan sino a oggi, poi al cinema Gnomo, dall'1 al 6 marzo). A sparigliare ancor di più le tessere dell'intricato «puzzle identitario» della regione ha pensato poi, venerdi sera, l'intensa «no-stop» curata per il festival da Maria Nadotti. A ragionare animatamente sulle possibilità di dialogo e di auto-analisi che passano (anche) dal cinema c'erano Ula Tabari (palestinese di Nazareth, e dunque pure israeliana, domiciliata a Parigi) regista di Private Investigation e Osnat Trabelsi, produttrice dello scioccante Arna's Children, israeliana, ma pure arabo-orientale, di padre iracheno e mamma tunisina.

Due documentari molto diversi, per stile e genesi, ma che sfidano entrambi i percorsi obbligati dell'ideologia, militante o pacifista, a testimonianza di uno sguardo libero che, con paradosso solo apparente, sta generando, presso entrambe le parti, gli antidoti a un conflitto infinito. La cifra di sferzante e amaro umorismo della Tabari rimanda senza dubbio allo sguardo moderno e assai poco nazionalista del cineasta palestinese Elia Suleiman (di cui Ula è stata attrice e compagna); la sua spregiudicata indagine nell'identità dei palestinesi in Israele (il 20% della popolazione), a cominciare dalla sua famiglia, pone domande e registra risposte diverse, per lo più nel segno della rimozione e della negazione di quella identità (speculare, s'intende, alla negazione della Palestina da parte israeliana), ma anche della frustrazione e del rimpianto per la crescente emarginazione e per una convivenza sempre più difficile di quanti avevano scelto (e potuto scegliere) di rimanere e di resistere all'esilio. «L'identità palestinese è sicuramente molto composita, come la sua società: è diversa a Gaza, in Cisgiordania, nei campi profughi, nei territori dello Stato israeliano, all'estero, però la memoria e il sentimento dell'oppressione sono il cemento comune. Ma l'identità cambia nel tempo, ed oggi non è solo nazionale ma sempre più sessuale, sociale, economica. E i "palestinesi dell'interno" abitano forse il cuore di queste contraddizioni».

Dolore e rabbia tracimano invece dallo schermo in Arna's Children di Juliano Mer Khamis (attore, di cinema e teatro, molto noto in Israele); un progetto filmico militante e amatoriale nato nel 1989, ai tempi della prima Intifada, e poi continuato sino al 1996 per rendere testimonianza al lavoro della madre del regista, Arna Mer (morta di tumore nel 1995), donna e pacifista straordinaria, che nel campo di Jenin aveva dato vita a un progetto teatrale per ragazzi che riuscivano così ad esprimere e rappresentare i propri desideri e le proprie frustrazioni. Ma l'idea del film si concretizza solo dopo la distruzione di Jenin nel 2002 da parte dell'esercito israeliano e dopo l'incontro con Osnat Trabelsi, vero «motore» del film.

Juliano torna nel campo per scoprire che quasi tutti i ragazzi che aveva filmato tanti anni prima hanno scelto la strada del martirio, uccisi in attentati suicidi o in scontri armati. Il film esplora il lato umano, le storie individuali, familiari, sociali che stanno dietro, al di là dei facili stereotipi ed isterismi, del «buco nero» del «terrorismo suicida». Uno sforzo di comprensione che è forse l'unica speranza in un luogo dove il teatro è ormai solo un ricordo, dove le macerie sono tapezzate dalle immagini dei giovani martiri e dove i bambini chiudono il film cantando gli inni delle brigate Al-Aksa. «Dopo le traversie di Jenin, Jenin di Mohammed Bakri eravamo preparati al peggio, avevamo investito molto in assistenza legale, dice la Trabelsi. Invece il film che è stato proiettato in Israele in cinamateche, rassegne, kibbutz, ha suscitato dovunque reazioni forti, ma non di ostilità, piuttosto di stupore. In realtà, come fu per me quando a Jenin per la prima volta in vita mia vidi un campo profughi, gli israeliani non sanno nulla, guardano tv e media manipolati, che hanno cancellato ogni connessione tra l'occupazione e il terrorismo. Ma oggi che nel mondo il conflitto è mediaticamente meno attraente il cinema in Israele diventa più personale, senza rinunciare a toccare temi politici, come i refusnik. Per la prima volta, forse, il popolo israeliano, grazie al cinema, sta guardando se stesso nel conflitto».

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