VISIONI

I «cubani posticci» e il salsero verace

LORRAI MARCELLO,MILANO

Sono sì posticci, i cubani di Marc Ribot, ma fanno decisamente sul serio: e fanno sul serio proprio perché, dichiaratamente falsi, non fanno i cubani per finta, e non cercano di venderci qualche mito dell'«autentico». Niente mimetismo nel modo con cui i Cubanos Postizos del chitarrista newyorkese interpretano in apertura della loro esibizione agli «Aperitivi in concerto» alcuni classici di Arsenio Rodriguez, uno dei grandi innovatori della musica cubana nel cuore del secolo scorso. Ribot per fortuna non è Ry Cooder: è un musicista troppo intelligente per confondere omaggio al passato con passatismo, rispetto per quello che è stato con congelamento. La sua sana distanza dal passato, da quel passato, da quella Cuba, Ribot, evitando il rischio della adesione nostalgica, la prende elegantemente facendo reagire quel passato con un altro passato: con la sua chitarra elettrica e col sound alla Hammond della tastiera di Anthony Coleman (al basso c'è Brad Jones, alla batteria EJ Rodiguez, alle conghe Barbaro Torres) tratta Arsenio Rodriguez, non senza tinte psichedeliche, con colori che ci riportano ad un tempo ormai non vicino di un 50enne che è cresciuto in un mondo musicale assai diverso da quello afrocubano. Così, invece di raccontarci una stucchevole favola della Cuba che fu, rivisitando Rodriguez, Ribot ci porta oniricamente dentro una sua Cuba della fantasia, con la poetica indeterminatezza dei sogni. Un peccato, in un certo senso, che ci si sia dovuti svegliare troppo presto.

Ma l'appuntamento di questa domenica mattina degli «Aperitivi» era impreziosito dall'aggiunta ai Cubanos Postizos di un salsero verace, un personaggio di culto a cui non si poteva far fare troppa anticamera: Joe Bataan, grande figura del latin soul, mancava da Milano dall'80, e che non stesse più nella pelle è apparso chiaro da come si è arrischiato, malgrado l'età non più verde, ad entrare in scena arrampicandosi sul palco dalla platea. Col suo arrivo sotto i riflettori, accompagnato dalla moglie Ivonne Bataan come corista, lo spettacolo ha preso un altro tipo di piega, un po' meno sottile. L'esuberanza di Bataan, di origine afrofilippina, venuto su musicalmente dalla Harlem ispanica, è quella di uno che il pianoforte ha imparato a suonarlo da solo in carcere, dove lo aveva portato la frequentazione di gang giovanili. Voce arrochita, intonazione non sempre infallibile, istrionismo alla buona, Bataan ha rispolverato successi come Gipsy Woman, hit del `67 con l'etichetta Fania, o Puerto Rico, che sono tutta un'epoca, a cui Bataan ha dato un importante contributo come innovatore della salsa, di contaminazioni fra latin jazz, soul, funky.

L'intesa con Bataan di un musicista pur di generazione più giovane come Ribot è tutt'altro che scolastica: sono ambiti con cui il versatilissimo chitarrista (fresco reduce da un'ennesima tournée con Tom Waits, e nella scorsa stagione passato più di una volta in Italia con Zorn) va a nozze. Da un lato la passione per la musica latina, dall'altro una conoscenza di prima mano di generi che Ribot ha praticato esordendo professionalmente alla fine degli anni settanta a New York come accompagnatore di artisti del calibro di Jack McDuff, Wilson Pickett, Carla Thomas, Rufus Thomas, Solomon Burke.

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