MONDO

Uccidere donne non è reato

BERETTA GIANNI,GUATEMALA

Doveva essere l'anno dell'inversione di tendenza dalla dissoluzione istituzionale e dal caos in Guatemala. La destra moderata del neo presidente Oscar Berger era riuscita persino a cooptare la Nobel per la pace Rigoberta Menchù come ministro-garante dell'applicazione dei dimenticati accordi di pace del `96. E l'incubo e le intimidazioni dell'ex dittatore Efraim Rios Montt sembravano definitivamente alle spalle. E invece il 2004 appena concluso ha registrato un nuovo terrificante fenomeno di violenza: l'uccisione mirata di donne. Sono quasi 500 le donne assassinate negli scorsi dodici mesi, specialmente nella capitale Città di Guatemala e di notte, a un ritmo di una decina per settimana; molto più elevato e inquietante che nella cittadina messicana di frontiera di Ciudad Juarez, assurta internazionalmente alla cronaca nera proprio per la scomparsa di donne che si prolunga ormai impunemente da qualche anno.

Per il sociologo guatemalteco Manfredo Marroquin «più che di una novità si tratta di una forma in più della violenza generalizzata che sconvolge il paese da anni e che ha le sue radici da un lato nell'estrema povertà della popolazione guatemalteca e dall'altro nella fragilità di istituzioni inefficienti e corrotte come il sistema giudiziario o gli apparati di polizia».

Fin qui niente di nuovo, purtroppo. Ma quando si chiede a Marroquin (responsabile di una ong impegnata nella società civile) perché questo accanimento particolare contro le donne, risponde con una tesi terrificante: «Non è facile avanzare ipotesi certe in una società già di per sé così maschilista; anche perchè gli inquirenti non fanno bene il loro lavoro e nella gran parte dei casi i responsabili di questi delitti rimangono sconosciuti; tuttavia abbiamo osservato che un gran numero di queste uccisioni riguarda ragazze fra i 13 e i 17 anni che vivono in quartieri a forte presenza di bande giovanili, di cui frequentemente fanno parte».

Il nostro interlocutore si riferisce alle cosiddette maras, bande di giovani (in particolare adolescenti) che imperversano ormai da anni e in forma crescente in Guatemala, El Salvador e Honduras (meno in Nicaragua) e che esprimono il marcato disagio sociale di questi paesi. Le prime maras si costituirono tempo addietro con i giovani centroamericani deportati dalle prigioni degli Stati uniti (dove erano emigrati clandestinamente in cerca di fortuna). Sono bande spesso in lotta fra loro che sfidano le istituzioni e la stessa criminalità organizzata. Le maras hanno inscenato le ultime due violentissime rivolte carcerarie dello scorso anno in El Salvador e hanno fatto recentemente parlare di sé per il massacro dei passeggeri del bus assaltato nei pressi di San Pedro Sula, in Honduras. Sono giovani che trovano facilmente le armi trattandosi di paesi da poco usciti da lunghi conflitti interni, originati da miseria e ingiustizia ancora estremamente presenti. La loro violenza si rivela spesso gratuita.

Il governo del presidente Oscar Berger cerca di correre ai ripari per ridare sicurezza a un paese turisticamente spettacolare ma sempre più tagliato fuori dagli itinerari di viaggio di nordamericani ed europei. Anche la «Rete per la non violenza contro le donne» ha organizzato con certo successo nella capitale, lo scorso 25 novembre, una «marcia per la vita, non un assassinio di più».

Manfredo Marroquin è tuttavia pessimista sulla volontà delle autorità guatemalteche di affrontare questa agghiacciante ondata di violenza contro le donne: «Come si fa ad essere fiduciosi con una giustizia praticamente inoperante e con apparati come la Polizia nazionale civile i cui agenti stessi si convertono spesso in delinquenti? Fino a che non saremo capaci di creare istituzioni statali solide ed ex novo, e di far crescere un'economia stagnante da oltre vent'anni per creare posti di lavoro, è francamente impensabile che si possano correggere simili livelli di violenza».

Il Guatemala continua a scontare il retaggio di dittature che, a differenza del resto del Centramerica, convertirono i militari da strumento dell'oligarchia locale in vera e propria casta di intoccabili. E che oggi continuano a spadroneggiare maneggiando succulenti traffici illeciti (narcotraffico, armi, sequestri di persona) mentre esercitano il «controllo sociale» fomentando la delinquenza diffusa e la sua impunità.

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