Do a small thing for peace every day. Per favore, una piccola cosa per la pace al giorno, questo l'appello con cui la cambogiana Song Kosal ha aperto la prima conferenza di revisione del Trattato di Ottawa contro le mine tenutasi la scorsa settimana a Nairobi. Nel 1995, aveva 12 anni, Song Kosal fu tra le prime vittime a dare volto e voce alla crisi umanitaria delle mine terrestri sparse per il mondo: una delle più complesse eredità della Guerra Fredda che faticosamente affiorava all'attenzione dell'opinione pubblica. Allora salì sul palco dell'Onu (durante la revisione della Convenzione Onu sulle Armi Inumane) con le sue timide protesi, nell'imbarazzo delle delegazioni ufficiali che non avevano previsto la presenza di quella ragazzina ad importunare l'ovattato ambiente negoziale impegnato in quel momento a discettare di mine intelligenti. Oggi è donna, l'advocacy il suo mestiere dopo tanto girovagare per il mondo. Oggi, il suo richiamo ad una tangibile responsabilità della politica verso i cittadini del mondo lanciato ad una platea di 167 delegazioni governative è risuonato più cogente, perché realistico, negli anni in cui i poco cavallereschi bombardamenti della popolazione civile sembrano essere l'unica - e assai poco fantasiosa - risposta del mondo all'acuminata provocazione del terrorismo internazionale.
A sette anni dalla firma del Trattato per la messa al bando delle mine, il summit di Nairobi ha registrato una sostanziale tenuta del modello diplomatico - il cosiddetto processo di Ottawa - che produsse allora la prima esperienza di multilateralismo alternativo, in rottura con le regole del consenso a tutti i costi dei negoziati Onu. Sull'onda crescente del movimento antimine, i governi accolsero la sfida di inventarsi un percorso negoziale fondato sulla maggioranza, senza diritto di veto. Emerse così la capacità di paesi piccoli e medi nella tradizionale graduatoria della geopolitica - Canada, Norvegia, Belgio, Sudafrica - a fissare un'agenda internazionale ed assicurare una leadership nella soluzione di problemi globali. Accanto agli stati ed alle Nazioni unite irruppe, con pari dignità ed imbattibile visibilità politica, la società civile.
Incoraggiante che sia confluito a Nairobi il più alto numero di delegazioni in tutta la storia di questa convenzione. Incoraggianti le nuove adesioni (l'Etiopia) ed i segnali di avvicinamento da parte di governi ancora esclusi dal processo negoziale. Incoraggiante anche la qualità dei documenti approvati, come l'emergere di un protagonismo più maturo, ormai decisamente militante, da parte delle vittime delle mine. Incoraggiante infine l'interesse di alcuni governi al ruolo che i gruppi armati non statali (non-state actors) possono e devono giocare nella attuazione del trattato - molti di essi ancora usano le mine come arma d'elezione - ed il richiamo alla necessità di coinvolgerli nel processo di universalizzazione.
I governi tuttavia non hanno voluto recepire le richieste della Campagna Internazionale contro le Mine e della Croce Rossa Internazionale, rifiutandosi di raggiungere una posizione comune su tre cruciali questioni. L'utilizzo delle mine in operazioni internazionali con stati non aderenti (gli Usa). L'inclusione nella definizione di mine antipersona di quelle anticarro e antiveicolo dotate di sensori per l'antirimozione. L'opportunità di ridurre al minimo gli stock per l'addestramento.
Nell'ossificato contesto della guerra preventiva e dell'unilateralismo globale made in Usa, il modello di diplomazia democratica sperimentato con le mine è sotto attacco, perché nella sua originalità la Convenzione di Ottawa è il solo strumento giuridico internazionale a registrare un avanzamento, mentre gli altri trattati segnano il passo e non riescono ad entrare in vigore. Alla società civile il compito di fare da argine, per impedire che la logica della sicurezza nazionale abbia anche qui il sopravvento sull'obiettivo globale: estirpare il terrorismo quotidiano di questo ordigni.
* Presidente della Campagna ItalianaContro le Mine