METROVIE

SUONANDO IL JAZZ SOTT' `A GALLERIA

LIBRO
ONORI LUIGI,ITALIA/NAPOLI

La Napoli eroica che ha cacciato i nazifascisti affollata di soldati americani, di V-Disc, di club improvvisati. Una città ridotta alla fame in cui si fa largo il messaggio di libertà del jazz. La fatica entusiasta dei giovani che imparano, in fretta, un nuovo linguaggio sonoro e suonano ovunque sia possibile, dai salotti borghesi ai ritrovi più equivoci. Le dinastie di musicisti (in particolare batteristi) che emigreranno nelle capitali italiane della musica leggera (i Munari, i De Cicco, i Buonomo), eccellenti pianisti che finiranno in Svizzera a suonare nei piano-bar di classe (Lucio Reale), sperimentatori audaci che lasceranno la città partenopea per trovare altrove un pubblico e dei partner (Mario Schiano). Questo sono solo alcune delle immagini, forse le più vivide, che emergono da Il jazz a Napoli dal dopoguerra agli anni Sessanta di Diego Librando (Guida ed., pp. 180, euro 14,20). L'autore (pubblicista, diplomato in pianoforte e jazz) circoscrive con cura la materia della sua analisi storico-sonora ed ottiene il risultato di smentire uno dei tanti luoghi comuni circolanti: l'assenza del jazz a Napoli. L'assenza, piuttosto, è nelle storie ufficiali ed ha motivazioni che l'autore illustra nel corso della trattazione. Il volume si articola in tre capitoli (Il jazz in Italia dagli anni Trenta ai primi anni Sessanta; Gli anni della guerra: Napoli scopre l'America; Il jazz a Napoli: dall'entusiasmo del Circolo Napoletano del Jazz all'inarrestabile declino). Presentazioni e Conclusioni incorniciano i capitoli, fittissimi di dati e riferimenti, mentre otto interviste (Renzo Arbore, Sergio Cotugno, Antonio Golino, Lino Liguori, Gegè Munari e Schiano, Errico Parrilli, Alfredo Profeta, Bruno Rotoli) ed una selezionata galleria di foto completano il testo.

L'assenza cui prima si accennava Librando la riempie raccogliendo le testimonianze orali dei protagonisti della vicenda partenopea del jazz (da Tito Livio a Profeta, da Franco Ottata - autore di un analogo volume edito nel 1962 - a Golino), consultando i documenti messi a disposizione dai membri del Circolo Napoletano del Jazz, effettuando uno spoglio rigoroso di giornali e riviste.

Questa metodologia rappresenta uno dei meriti del libro ma anche uno dei suoi limiti: talvolta Librando esagera nel volume di informazioni riportate mentre si avverte in varie occasioni la mancanza di momenti di analisi, di riflessioni che traggano le conseguenze. Va, però, precisato che l'autore dimostra con prove scrupolose tutte le sue tesi. La vita jazzistica a Napoli è viva e presente fin dall'arrivo degli americani e trova la sua legittimazione nel 1954 con la nascita del citato CNJ (primo presidente Franco Vaccaro).

Il decennio di ritardo rispetto ad altre realtà associative (Milano o Firenze) è dovuto alle «particolari condizioni storico-culturali della città partenopea alle prese, al termine della seconda guerra mondiale, con la propria ricostruzione materiale e morale» (p.96). La musica afroamericana i napoletani la conosceranno attraverso i complessi americani, i V-Disc, le radio (Radio Napoli in particolare) e forte sarà l'influenza dei ritmi della musica da ballo americana, in particolare dello swing (se ne parla in due efficaci paragrafi dedicati a Renato Carosone e ad Ugo Calise).

Le iniziative divulgative e concertistiche del CNJ e le attività connesse alla base Nato ed alcuni concerti di respiro internazionale (da Louis Armstrong a Chet Baker) determineranno negli anni `50 una situzione in apparenza simile ad altri centri jazzistici italiani, senza che in realtà Napoli esca dal suo provincialismo e dal suo isolamento.

Molti musicisti (dal pianista Lucio Reale al chitarrista Willi Mauriello) potrebbero essere ai vertici del jazz italiano mentre alcuni gruppi incarnano correnti avanzate (il Quartetto Moderno, il New Southern Jazz Combo di Schiano con il suo free primigenio). Fino ai primi anni `60 l'azione generosa del CNJ trattiene i jazzisti più bravi, crea un pubblico e sollecita le nuove leve ma poi la diaspora partenopea sarà inarrestabile.

Il capitolo più riuscito appare quello riguardante l'immediato dopoguerra («sono anni complicati, gli anni narrati da Malaparte ne La Pelle», p.135) e, nell'appendice, sono illuminanti e significative le interviste ai batteristi Antonio Golino e Lino Liguori e ad Alfredo Profeta, animatore, critico ed organizzatore. Le loro parole, che non risparmiano critiche taglienti e circostanziate, vibrano comunque di passione e fanno rivivere luoghi e personaggi di un'avventura sonora ed esistenziale che è stata collettiva: il jazz a Napoli.

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