VISIONI

La voce di Hakim mette tutti d'accordo

LORRAI MARCELLO,MILANO

In un brano, El Yomen Dol, compreso nel nuovo album Lela, tira aria di macarena. In un altro, su un ritmo latinoamericano, il corista e quattro percussionisti si trasformano in ballerini da animazione balneare. I ritmi tamarri da discoteca fanno più che capolino. Ma non per questo il jeel di Hakim, massima star del genere, è da prendere sottogamba. Sulla scena egiziana il jeel ha rappresentato una evoluzione del shaabi («popolare») nel senso dell'incremento dell'eccitazione ritmica, dell'esaltazione delle percussioni, di un generoso impiego dell'elettronica. Con queste carte da giocare non ha faticato a fare breccia nel gusto giovanile. E dal Cairo nell'ultima quindicina d'anni ha conquistato una parte considerevole del mondo arabo. Degli archi che infarcivano gli stili orchestrali che hanno fatto grande l'Egitto musicale del novecento, nel jeel non rimane molto più che dei flash con cui le tastiere scandiscono, punteggiano, colorano a volte le canzoni. Senza bisogno di rodaggio, fin dal primo brano la musica parte a pieno regime. Musica tutt'altro che superficiale, energetica, potente, su ritmi concitati, spesso quasi frenetici, che non danno respiro. Quello che anche nei dischi classici di Hakim (Nazra, `91, Nar, `94, Efred, `96) può apparire un po' freddo per quanto innovativo, e che nell'ultimo disco risulta piuttosto edulcorato e sfibrato, addolcito nel tentativo di rivolgersi ad una platea più ampia, dal vivo è invece pieno di forza e di calore, esuberante, corposo, avvincente.

Il gruppo allinea due tastiere, un corista, due trombe, un trombone, flauto, fisarmonica, basso, batteria, tre tamburi a cornice e una derbuka, cioè quattordici elementi, un po' meno di quello che Hakim può schierare al Cairo anche solo per una (comunque salatissima) comparsata a una festa. Una formazione che interpreta la musica con grande precisione, determinazione, compattezza, con le percussioni che incalzano in primo piano. Invece di cincischiare con espedienti tipo James Brown ospite in un brano e Stevie Wonder in un altro, come avviene in Lela, nel tentativo di attirare l'ettenzione del pubblico internazionale non arabo, chi si occupa della carriera di Hakim dovrebbe decidersi a farlo registrare live o comunque con un vero gruppo e non con i troppi artifici e le mediazioni da studio di incisione con cui la sua musica è stata prodotta, facendole perdere l'impatto che ha sul palco. Il jeel di Hakim non è una musica all'insegna del pathos, come può esserlo il raï (di cui non ha d'altra parte neppure l'audacia contenutistica), ma è autentica. E anche la star egiziana, ben oltre i quarant'anni, non è un cantante in cui si debba cercare una particolare qualità virtuosistica: scandisce i testi più che cantarli, ma con un dinamismo e un'allegria che funzionano, presenza scenica cordiale e una vivace, buffa gestualità. Il timbro di Hakim è un po' metallico, ma finisce per essere congeniale alle torsioni a cui la voce è sottoposta grazie all'elettronica, con deformazioni di eleganza non proprio sopraffina ma che nel contesto di questa musica acquistano una loro paradossale, umoristica naturalezza e comunque godibilità.

In un clima festoso, il grosso del pubblico, un migliaio di spettatori composto quasi al 100% di egiziani, ha cantato in coro i ritornelli assiepato sotto il palco del Mazdapalace. Hakim mette d'accordo tutti: interi gruppi familiari con bambini di pochi anni che sciamano, signore e ragazze col velo, così come giovani egiziani gay che non fanno certo di tutto per passare inosservati e ballano con una sinuosità e una sensualità da far invidia a una provetta danzatrice del ventre.

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