CULTURA

Conflitti in pace di coscienza

FORME DI VITA
DE CAROLIS MASSIMO,USA/MONDO

Fa un certo effetto, nelle prime analisi delle recenti elezioni americane, constatare che, per la gran parte dell'elettorato repubblicano che ha regalato la vittoria a Bush, crisi economica e guerra in Iraq figurino solo al terzo e quarto posto nella classifica dei temi elettorali rilevanti. Al primo posto, come argomento decisivo della scelta elettorale, campeggia la difesa dei «valori morali», a cominciare dal rifiuto categorico delle unioni omosessuali e del diritto legale all'aborto. Quello che più colpisce, stando ai dati, è che tanto rigore morale si associ senza sforzo a una quasi completa indifferenza di fronte a ogni genere di trasgressioni, non appena ci si allontana dalla sfera privata e ci si accosta a quella pubblica. A quanto pare, la coscienza morale dell'elettore medio non è stata granché turbata dal coinvolgimento dello staff presidenziale nei grandi scandali economici, dalle menzogne ripetute sulle cause della guerra e dai continui massacri di civili iracheni, eccezion fatta per lo scandalo che gli abusi sui detenuti di Abu Grahib lambissero, appunto, la sfera sessuale e fossero in qualche caso praticati da soldati di sesso femminile. Sarebbe facile liquidare questa combinazione di vizio pubblico e privata virtù come un banale caso di ipocrisia borghese, se il fronte opposto dello scacchiere geopolitico contemporaneo, quello dei sostenitori dell'integralismo islamico, non esibisse una miscela praticamente identica. Nel caso di un kamikaze votato alla morte, si può ben presumere che l'adesione ai valori morali sia qualcosa di più che un'ipocrisia di facciata. Eppure, anche su questo fronte il rigore morale è saldamente confinato nella sfera intima. È qui che s'invoca la severità di una sharia inflessibile nel lapidare adultere e sodomiti così come nell'imporre veli alle donne e barbe agli uomini.

Viceversa, né la corruzione dilagante nelle gerarchie del clero né le stragi al mercato turbano la coscienza del fedele. Del resto, che gli intricati rapporti d'affari tra le famiglie Bush e Bin Laden non scuotano di un palmo i sostenitori dell'uno e l'altro clan è una circostanza stupefacente, in pari grado, per entrambi i fronti.

Come interpretare questa moralità a senso unico che, d'improvviso, sembra guidare i maggiori conflitti mondiali? Qual è il collante emotivo e ideologico che unisce il rigore bigotto in famiglia al più spregiudicato cinismo al di fuori? Intanto, è il caso di osservare che, in entrambi gli aspetti, a venir meno è la fiducia nelle regole etiche e giuridiche, da sempre chiamate a garantire la stabilità della dimensione pubblica. Da Aristotele in poi è assodato che, per vigere appunto in uno spazio pubblico, abitato da una pluralità di uomini e donne estranei l'uno all'altro, regole di questo tipo sono inevitabilmente contingenti, esposte alla trasgressione e alla rettifica, prive insomma di altro fondamento che non sia l'accordo, tacito o esplicito, inerente alle forme di vita collettive.

A quanto pare, la visione morale che accomuna i guerrieri di dio del Middle-West a quelli delle valli afgane sancisce proprio l'abrogazione di questa pratica di accordo collettivo. Il rigore invocato nella sfera domestica è perciò quello di presunte leggi di natura, inerente non a una comunità politica ma a una comunità di sangue. Di converso, la sfera delle relazioni esterne al clan, dove la voce del sangue non ha più valore, è apertamente riconosciuta come campo della violenza e dell'arbitrio, in cui è sospeso ogni obbligo morale.

È fin troppo rassicurante osservare che una visione neotribale tanto rozza è inadatta per definizione a governare una società complessa e può quindi acquisire un peso politico solo al seguito di una qualche élite di pochi scrupoli, capace di manovrare con sapienza i mass media, i mercati finanziari e le tecnologie militari d'avanguardia. La difficoltà è che i processi sociali postmoderni, proprio per la complessità imposta dai loro alti livelli di tecnicizzazione, sono da un pezzo ormai impermeabili a qualsiasi governo politico. Il risultato è che la struttura politica per eccellenza, vale a dire lo Stato, ha rinunciato alla sua antica pretesa d'integrare e comporre le spinte parziali e conflittuali della società civile, per ridursi a essere solo l'espressione organizzata di queste spinte, quali che esse siano. Di qui il paradosso per cui, nell'alternativa tra un nuovo ordine globale e la guerra civile planetaria, non è escluso che anche il soggetto politico e militare più potente del mondo spinga verso la seconda delle due opzioni.

A costo di rischiare il falso allarme, è bene non minimizzare la gravità della posta in gioco, specie nel momento in cui la retorica dei valori morali si accinge a fare il suo ingresso sulla ribalta politica italiana, dove ha buone probabilità di trovare un terreno più che fertile. Non si dimentichi che, ben prima di talebani e pentecostali, il binomio tra rigore morale all'interno del clan e violenza illimitata al suo esterno ha dato vita, grazie al genio italico, a quell'autentico capolavoro di antipolitica moderna che è la mafia siciliana. Che oggi lo stesso binomio scaldi i cuori dei valligiani del profondo Nord, e che il governo inciti gli uni e gli altri a rimettere mano alla costituzione, la dice lunga su quanto possa risultare devastante il rigurgito della morale nel nostro paese. A mitigare l'eccessivo pessimismo va osservato che i conflitti del presente stanno modificando in profondità le tradizionali distinzioni tra amico e nemico, creando alleanze sorprendenti sull'uno e l'altro fronte. Come in altri paesi europei, anche in Italia l'apparato produttivo nel suo insieme è spinto dalla concorrenza internazionale a promuovere capacità basate sull'innovazione, la ricerca e gli alti livelli di scolarità richiesti da un modello produttivo avanzato. Questo tipo di attitudini creative cresce al meglio in un tessuto comunicativo libero e plurale, dunque in quello scenario ipermoderno che per i talebani nostrani è la nuova Sodoma o, a chiare lettere, «l'Europa dei culattoni». Non saranno però solo l'Europa, gli imprenditori più lungimiranti e i sindacati a ostacolare la crociata morale in Italia. Presumibilmente, lo scoglio decisivo sarà l'autorità della chiesa cattolica. In effetti, solo a uno sguardo superficiale il nuovo fronte reazionario può apparire come un risorgimento dello spirito religioso. La verità è che, in America come nel mondo islamico, i più accesi guerrieri di dio si distinguono per una conoscenza men che superficiale dei dogmi, un'adesione improvvisata alla liturgia e un'aperta disobbedienza alle autorità ecclesiastiche riconosciute. Questo perché la morale è il vero nocciolo del loro messaggio e il richiamo religioso ne è solo l'involucro esterno, ridotto di necessità ai suoi minimi termini, sfrondati di ogni complicazione dottrinaria. Non che manchi, ovviamente, all'interno della chiesa cattolica una tradizione antimoderna del tutto compatibile con questa ricetta per palati semplici. Come e più delle altre grandi religioni, il cristianesimo è vincolato, però, a un messaggio universale di salvezza: quello che Paolo annunciava «all'ebreo come al greco» e che è quanto di più nemico a ogni presunta comunità del sangue. Il conflitto, dunque, passa stavolta all'interno della chiesa, tra il parroco pronto magari a benedire la sacra ampolla del dio Po e il teologo che ha meditato sull'Epistola ai Romani. Come nelle migliori tradizioni, si tratterà probabilmente di uno scontro a porte chiuse, destinato però a influire sul futuro politico italiano ben più dei dibattiti parlamentari o dei comizi televisivi.

Tornando a uno scenario politico più vasto, non si può infine trascurare il ruolo del movimento legato al tema della globalizzazione, anch'esso inevitabilmente toccato dal modo in cui le linee di alleanza e ostilità si vanno drasticamente ridisegnando in questi anni. Nato a sua volta, in fondo, sulla base di istanze morali e su un terreno di diffidente estraneità alla politica moderna, questo movimento è spinto oggi a opporre un argine alla minaccia di spoliticizzazione della vita. Nato come protesta contro la globalizzazione, è chiamato ora ad accollarsi l'onere di un possibile ordine globale alternativo alla guerra infinita. Impossibile pronosticare se e quando questa metamorfosi sfocerà in un profilo preciso, ma alcuni banchi di prova decisivi possono essere indicati fin d'ora.

In primo luogo, se vuole avere un peso nei conflitti politici in corso, il movimento new global dovrà liberarsi al più presto delle scorie antimoderne che tuttora vivono al suo interno: dal mito di una presunta armonia rurale d'altri tempi al lamento infinito sulla corruzione e l'immoralità della società moderna. Questo, ovviamente, non vuol dire abbracciare ogni aspetto della modernizzazione, rimuovendone in blocco le contraddizioni, gli errori e gli orrori. Semplicemente, si tratta di riconoscere che il modello di comunità che questo movimento è intenzionato a difendere è quello, virtualmente universale, di singolarità altamente individualizzate - secondo una formula classica: la comunità di quanti sono estranei a ogni comunità tradizionale; e che una comunità di questo tipo non è mai esistita se non all'apice della modernità, in società tanto permeate dalle tecnoscienze da poter rendere immediatamente produttive le facoltà generiche dell'animale umano, come il linguaggio o la prassi creativa. In secondo luogo, occorre sciogliere quanto prima ogni incertezza tra politica e antipolitica e, se è una prassi politica quella a cui si mira, occorre misurarsi in positivo col problema delle istituzioni.

Proprio perché è retta da regole contingenti e concordate, nessuna comunità politica può esistere senza istituzioni chiaramente riconoscibili, in grado di assumere in forma legittima le decisioni vincolanti. Tanto meno può farlo un soggetto politico situato in uno stato di emergenza e di conflitto radicali. La retorica sulla fluidità del movimento, in questo caso, serve solo a rimuovere i problemi, lasciando spazio all'antipolitica dei valori morali assoluti e dell'inimicizia totale. Non bisogna temere, con questo, di smarrirsi nel deserto dei compromessi e delle burocrazie senz'anima. Lo svuotamento interno delle istituzioni politiche tradizionali ci sta abituando all'idea che solo l'antipolitica conosca autentici slanci ideali e che l'appartenenza a una comunità di sangue sia l'unica tanto profonda da poter motivare i suoi membri al martirio o alla lotta. È un'idea priva in realtà di qualunque fondamento.

Solo pochi decenni fa, l'ideale della rivoluzione mondiale era in grado, nel bene e nel male, di mobilitare le coscienze in uno scontro in cui l'appartenenza a tradizioni e a nazioni diverse era divenuta del tutto irrilevante. Non si tratta, ovviamente, di mitizzare un passato fin troppo carico di opacità e di errori, ma di cercare il proprio posto in uno spazio in cui le demarcazioni tra amico e nemico sono drammaticamente in movimento.

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