Adesso è morto. Ma anche da morto Yasser Arafat è destinato a restare ben più di un pezzo di memoria, perché la questione della sua sepoltura rimarrà fatalmente aperta, strettamente legata a quella del futuro di Gerusalemme. Lo sa bene Sharon, che, magnanimo, nella speranza di chiudere una volta per tutte il problema, ha prontamente concesso il suo permesso (ma non ancora i lasciapassare per arrivarvi) affinchè il suo funerale sia celebrato a Ramallah, una città su cui - almeno su quella - avrebbe da tempo dovuto esercitarsi la piena sovranità dell'autorità palestinese. Sarà per ora, dunque, la Muqata, a divenire meta del pellegrinaggio che il disperso popolo di Palestina compierà per onorare chi ha impersonato la causa della nazione senza stato. E dispiace che, forse per accogliere meglio la salma e gli amici, veri e falsi, che l'accompagneranno, si stiano in queste ore rimuovendo in fretta e furia le macerie attorno all'ultimo quartier generale del presidente. Quasi che tutti, anche gli attuali reggenti designati dalle istituzioni palestinesi a succedere ad Arafat avessero fretta di cancellare questi ultimi terribili anni.
Sharon, con l'abituale brutalità, non ha esitato a dire che la morte di Arafat segna una svolta storica, perché senza di lui la soluzione del conflitto sarebbe a portata di mano. Nessuno gli crede, ovviamente (salvo il governo Berlusconi): si tratta di una manovra crudele che ha puntato a delegittimare il leader palestinese, e che certamente verrà rinnovata ai danni del suo successore, quale che sia. Una nuova fase della storia palestinese comunque si apre, ma non sarà certo la scomparsa di Abu Ammar a facilitare la sua causa: sarà assai difficile trovare un leader che abbia lo stesso carisma e la stessa capacità unificante.
Contrariamente alle previsioni pessimistiche, molte interessate, la leadership palestinese sembra tuttavia aver trovato una equilibrata, anche se transitoria, soluzione incaricando una triade che ha per ora incontrato il consenso di tutti. Saggiamente accompagnata dalla designazione alla guida di Al Fatah di un capo storico dell'epoca della guerriglia, critico nei confronti dei più recenti compromessi, come Faruk Kaddumi. Ma la vera posta in gioco sono adesso le elezioni che si dovranno tenere entro 60 giorni. Reclamate da tempo con ipocrisia da tutti i sacerdoti della democrazia, che hanno preferito ignorare che un voto non può essere libero se i carri armati dell'occupante straniero continuano a presidiare il territorio e a controllarne ogni attività; se tanti dei più popolari possibili candidati, a cominciare da Marwan Barghuti, sono in galera; se, soprattutto, viene fatto pesare drammaticamente il ricatto esercitato da parte dei governi di Tel Aviv, di Washington ed europei in tutti questi anni: o scegliete il leader che piace a noi, o non vi concederemo neppure una briciola di ciò che l'Onu ha deliberato vi spetti.
Il "democratometro" del mondo globale - come lo chiama Eduardo Galeano - opera sempre misurazioni assai arbitrarie, ovunque; ma mai come in rapporto a Israele e la Palestina. Per molti decenni ci siamo mobilitati a fianco dei palestinesi, scendendo in piazza in occasione dei più drammatici eccidi di cui sono stati vittime. Oggi la nostra «prima linea» sta nel garantire loro almeno il diritto ad autorappresentarsi, senza interferenze. Solo una soggettività pienamente recuperata, attraverso, anche, una saldatura che mai ha potuto fino ad oggi pienamente operarsi fra palestinesi dei territori, palestinesi della diaspora e organizzazioni in esilio, può riaprire una prospettiva oggi così difficile da scorgersi.