VISIONI

Le parole per suonarlo

ONORI LUIGI,ROMA

Wu Ming 1 con il volto coperto come il subcomandante Marcos, i versi registrati di Carlos Bulosan che parlano della vita degli immigrati filippini, i pannelli coloratissimi del pittore caraibico Joël Nankin che dipinge mentre David Murray suona, la parola cantata di Stefano Benni. L'edizione 2004 del Roma Jazz Festival sta cercando l'incontro tra musica di matrice afroamericana e arte, dribbla i tour precotti e lavora attorno ad un'ipotesi: il rapporto tra jazz e una serie di arti (video, fotografia, letteratura, pittura, poesia, cinema...) per leggere la contemporaneità in modo multidisciplinare e multimediale. È presto per fare bilanci, a parte la lusinghiera presenza del pubblico: di certo tutti i concerti, al di là dello loro riuscita, hanno dato sia al jazz che alle forme d'arte coinvolte uno scossone, le hanno costrette a ridefinirsi in modo relazionale. In maniera modernissima (in quanto a tecniche e percorsi) la musica è tornata ad essere, come nelle antiche civiltà africane, parte di una comunicazione complessa dai risvolti sociali. L'8 novembre Stefano Benni ha presentato alla sala Sinopoli dell'Auditorium i brani del suo ultimo lavoro, (Baldanders, edizioni Full Color Sound) che corona la sua lunga frequentazione del jazz e del rapporto parola-recitazione-suono. Chi ha seguito nel tempo lo scrittore si è trovato di fronte a materiali già sperimentati nel simbiotico duo con il pianista Umberto Petrin (il sarcastico Le piccole cose da Ballate; la poliedrica Lombritticoetica da L'ultima lacrima) o nel lungo, fecondo rapporto artistico con Paolo Damiani (il drammatico Tema d'amore da Blues in sedici; Benni ha partecipato all'ultimo cd del contrabbassista - Ladybird, Egea - scrivendo due testi). Insieme e per il poeta hanno suonato e composto Damiani, Paolo Fresu, Gianluigi Trovesi, Petrin e Roberto Dani; le musiche scritte per i testi hanno ora interagito direttamente con le parole, ore le hanno supportate e commentate mettendole in primo piano. Il risultato complessivo fa in modo che la poesia e i temi cari a Benni (ironia, spiazzamento, tensione etica e politica, ricordo, immaginazione oltreterrena...), vivano di una vita rinnovata sia nella loro oralità (sempre più curata e convincente) sia nel rapporto vivo e, a tratti, imprevedibile con il linguaggio jazzistico.

L'inquieta classicità di Benni era stata preceduta da un altro reading, quello che lo scrittore bolognese Wu Ming 1 ha presentato a La Palma il 1° novembre insieme al trio Switters: Gianni Gebbia (sax alto), Vincenzo Vasi (voce, basso, teremin) e Francesco Cusa (batteria). C'era attesa perché il romanzo New Thing (Einaudi) scritto da Wu Ming 1 (membro del collettivo omonimo - ex Luther Blissett - autore di testi quali Q e 54 come della sceneggiatura di Lavorare con lentezza di Guido Chiesa) si presenta come opera carica di novità. In primo luogo ha il free jazz come elemento strutturale, unito alle vicende e alle figure del Black Panther Party nonché alla presenza di una serie di monologhi di un morente John Coltrane. Il libro, che ha una densa e polifonica complessità, parla dell'omicidio di sei jazzmen d'avanguardia nel 1967 da parte di un killer denominato il figlio di Whiteman, assassini ripercorsi a distanza di quarant'anni da una compagnia di reduci. Insomma, New Thing è un testo che si rifà al jazz nella sua musicalità e oralità, nel cesello certosino delle parole (l'autore ci ha lavorato tre anni) che accettano la sfida di riprodurre una sonorità libera e afroamericana. Ebbene, solo avendo letto o almeno scorso il romanzo, la performance a La Palma aveva senso; in sé Wu Ming 1 e i pur ottimi musicisti non riuscivano se non a sprazzi a trasmettere la complessità, la tensione e la drammaticità del testo. Il recital di Stefano Benni ha restituito in pieno la sua scrittura, il reading di Wu Ming 1 ancora no. È solo una questione di prove, tempi, e sintonie da sviluppare.

Nella performance del trio di Susie Ibarra (5/11, La Palma) le liriche di Carlos Bulosan sono state inserite nel tessuto dei brani attraverso registrazioni: hanno ispirato la batterista per il suo cd Folkloriko (Tzadik) ma risultano ormai del tutto assimilate, interne alla musica. Ben più maieutico e materico il rapporto tra le vivaci sonorità di David Murray & the Gwo-Ka Masters e la pittura di Joël Nankin. Murray ha sviluppato la collaborazione con musicisti dell'isola di Guadalupe, suonatori di Gwo-ka, tamburo che risale agli inizi del XVIII secolo (come si può ascoltare nel cd Gwotet, Justin Time). A Roma (6/11, sala Sinopoli) il plurisassofonista e compositore ha suonato con Rasul Siddik (tromba), il chitarrista senegalese Haerve Samb, l'ottima ritmica composta da Pheeroan Aklaff e Jaribu Shahid, i percussionisti isolani Klod Kiavue e François Ladrezeau. Mentre il settetto eseguiva una musica esuberante e, a tratti, eccessivamente semplicistica e muscolare, Nankin ha dipinto un grande pannello, trasformando quattro cerchi - inseriti in una sorta di finestra - in una fantasmagoria di colori e simboli che si potrebbero definire da realismo magico. Se Murray e compagnia hanno calcato la mano sulle radici africane e sulla corporeità della musica della Guadalupa, il pittore (che ha pagato con sei anni di reclusione la lotta per l'indipendenza del suo paese) ha saputo cogliere con maggiore ricchezza e problematicità lo spessore della cultura creola, crocevia tra tre civiltà: indigena, africana, europea.

Il Roma Jazz Festival prevede oggi il trio di Charles Llloyd con un omaggio a Billy Higgins anche filmico (documentario di Dorothy Darr) e il 17/11 un quartetto con Archie Shepp, Roswell Rudd e la voce poetica di Amiri Baraka.

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