GOOD NIGHT AMERICA

Come è diventata l'America

DOPOVOTO
CASTELLINA LUCIANA,USA/EUROPA

Paradossalmente siamo proprio noi «antiamericani» ad amare svisceratamente l'America. Molto di più degli iperatlantici. Sempre alla ricerca di un indizio, di un segnale proveniente dalla odierna società statunitense che riapra il cuore alla speranza e ci dica che sì, nonostante tutto, la nostra cara vecchia America del New Deal, di Hemingway, della Hollywood democratica, di Woodstock, di Martin Luther King, è ancora lì, è anzi quella vera che, al momento buono, viene fuori. Siamo noi i più legati alle radici di quel paese che non ha cessato di meravigliarci per la sua straordinaria capacità di reinventarsi, davvero ancora giovane. Ci abbiamo creduto anche questa volta e, sebbene Kerry non fosse proprio il nostro idolo, abbiamo atteso col fiato sospeso che la nostra America, quella che anche negli ultimi mesi era tornata a sorprenderci regalandoci Michael Moore, venisse allo scoperto. E abbiamo intitolato il giornale di ieri: Good morning America. Abbiamo peccato di filoamericanismo. E di nostalgia. Quella che è uscita il 2 novembre dalle urne non è una bella immagine dell'America. Ci ha rovesciato addosso una moltitudine di elettori gretti, nazionalisti, fanatizzati, spaventati dal diverso da sé, bigotti, che a Bush, dopo tutto quello che è accaduto, hanno regalato tre milioni e mezzo di voti in più di quattro anni fa. Fra i famosi 14 milioni di nuovi votanti su cui abbiamo puntato, come in un western si spera nell'arrivo dei nostri, ci sono anche stati giovani democratici e anzi persino di sinistra, come ci erano apparsi tanti militanti durante la campagna elettorale, ma sono stati compensati da potenti flussi opposti, dimostrandoci, fra l'altro, la fragilità di alcune teorie secondo cui le minoranze etniche non possono che essere antirepubblicane. E' vero, lo sono sempre state. Ma quando neri e ispanici hanno cominciato a votare più numerosi, come questa volta, si è visto che, al di là delle élites, prevale fra loro la stessa cultura dell'America profonda della maggioranza bianca. Diciotto milioni di neri per Bush, ora, contro i dieci del 2000. E se si guarda ai risultati dei grandi stati un tempo operai e oggi largamente impoveriti, sembra davvero che Bush abbia ragione quando dice che le classi sono un'invenzione europea.

Qualcosa di molto profondo è mutato in questi anni nella società americana. La presidenza Clinton è stata troppo fragile per rivitalizzare i vecchi valori democratici, per riabilitare le idee che ci hanno fatto amare l'America. La rottura di continuità operata dal reaganismo pesa drammaticamente ed è ben lungi dall'esser stata colmata. Una verità che sarebbe bene valutassero anche tutti i nostri ulivisti. Bush ha vinto sui «valori», è stato detto ed è largamente vero. Questi valori, lo sappiamo, sono pessimi. Ma il peggio è proprio quando i valori vengono agitati senza ancorarli a contenuti e progetti politici, perché diventano espressione di fanatici integralismi. Ma il peggio è anche un'opposizione che non ha il coraggio di contestarli fino in fondo, opponendovene di realmente diversi. Le timidezze ideologiche e gli opportunismi non pagano.

Aveva scritto prima delle elezioni Norman Mailer che bisognava cominciare a capire che la posta in gioco nel suo paese non era data dall'esito della campagna presidenziale, perché quanto occorreva era ormai una prolungatissima campagna elettorale, ben oltre la scadenza del 2 novembre 2004, per riconquistare la società americana. Perché - aveva detto - il problema non è Bush, è l'America: come è diventata. Questo voto dimostra che aveva ragione. E l'ammonimento vale anche per noi. Impegnarsi in questa lunga marcia è il solo modo di impedire che si radichi una cultura, oltreché un potere che la sostiene, secondo cui la civiltà è Abu Ghraib e Guantanamo. Perché questo significa assolvere chi le ha prodotte: la presidenza Bush e i suoi sostenitori Putin e Berlusconi, che, assieme nel vecchio Cremlino, hanno brindato alla vittoria dell'alleato.

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