VISIONI

Macchie di sangue sui vestiti del flamenco

MACRI' TERESA,SIVIGLIA

Pilar Albarracín (Siviglia 1968) è indubbiamente una estrella, una di quelle figure che rinviano - attraverso il fulgore delle proprie opere - due sensazioni così apparentemente antitetiche come stupore e immedesimazione, e che proprio per la improbabilità della loro coesistenza diventano una alchimia necessaria. La sua mostra alle Reales Atarazadas di Siviglia (fino al 31 ottobre) lascia stupefatti per la bellezza del luogo (un antico arsenale navale del 1252) restaurato e riconvertito in spazio polivalente, e per la magia del percorso che Pilar ha ben giostrato. La mostra curata da Rosa Martinez (la vivace direttrice della prossima Biennale di Venezia) è un'orgia di emozioni e di riflessioni, corrispondenze e allusioni. Famosissima e palpitante performer, Albarracín possiede anche il virtuosismo di imporsi con variegate incursioni formali che si diramano tra la video-installazione, la fotografia, il ricamo, l'azione urbana. L'artista decostruisce l'eredità performatica degli anni 60 attraverso un potenziale critico che la libera dall'autolesionismo tragico dei vari azionisti, depolarizza la centralità dell'io, si sgancia dai cliché comportamentali e anzi sugli stereotipi sociali crea disordine. Il suo mondo, apparentemente legato a quel folklore andaluso che è congelato nei souvenir e nei carnet de voyage turistici, è invece un atto di ribaltamento prospettico, uno spiazzamento magnetico. La mostra inizia con l'installazione Techo de ofrenda (2004) una caleidoscopica tenda sospesa in alto realizzata con 300 traje de faralaes (vestiti di flamenco) che Pilar ha recuperato in varie chiese e santuari mariani tra le offerte votive che molte donne andaluse offrono alla Madonna. L'interscambio simbolico tenta di connettere l'umano e il divino. Nell'altra installazione Caseta de tiro (2004) viene proposto un tirassegno che interagisce con lo spettatore invitandolo a sparare alle piccole icone che sono appese: i re cattolici, Picasso, Béquer, i calciatori del Betis e del Siviglia, gitani, guardie civili. L'intento è di stabilire una rivisitazione della storia di Spagna lasciando alla individualità del tiratore la scelta di cancellarne, simbolicamente, un frammento. In Prohibido el cante (performance realizzata nel 2000) l'artista è invece una cantante di flamenco seduta in una taverna insieme ad un chitarrista. Nella parete è scritta la frase del titolo della performance e allude al periodo in cui il franchismo censurava il flamenco come canto di opposizione. Pilar indossa il tipico traje de faralaes realizzato con la stoffa militare, urla, taglia il vestito con un coltello, estrae un cuore e lo lancia verso il pubblico. Ancora il peso culturale del flamenco come espressione del dolore sociale del popolo è il tema di Bailaré sobre tu tumba (2004). Qui, attraverso l'intensificazione dello zapateado (tipico passo di danza andaluso), viene scompigliata la geometria del ritmo e dei ruoli tra uomo e donna. Pilar balla su una pedana con un danzatore e attraverso l'alterazione dei passi si ribella al dominio maschile.

È quasi un lampo lunare la sua performance appunto Lunares (2004) in cui avvolta nel suo bellissimo bata de cola (tipico vestito con strascico) bianco balla al ritmo del pasodoble En er mundo. All'improvviso si ferma e comincia a conficcarsi uno spillo su tutto il corpo. Le macchie di sangue acquistano valenza simbolica (l'assoggettamento del femminile e l'esteriorizzazione del dolore nella sfera pubblica) e altresì l'allusione al classico vestito da flamenco solitamente bianco con grossi pois rossi derivato dai vestiti delle divinità cretesi. Albarracín lascia sfociare l'estetica nel campo antropologico senza farne materiale didattico ma estrapolando dal suo contesto territoriale quelli che sono i presupposti di un evidente e ancora imperante nazionalismo, i cliché del folklore andaluso e allargandone i presupposti alla società consumistica in cui l'appartenenza e l'identità diventano le gabbie dell'essere umano. Muro de Jilgueros (2004) è l'installazione che pur partendo dal proprio sé si espande al mondo. Su un muro sono collocate delle vecchie gabbiette di legno in cui sono rinchiusi dei canarini, tranne in quella centrale dove un canarino impagliato e ricoperto da un vestito rosso, canta un flamenco. Ovviamente le gabbie alludono alle prigioni in cui queste canzoni venivano prodotte ma rimanda anche al carcere come luogo di costrizione culturale femminile. Il ricorso al gender non è per Pilar una posizione post-femminista ma è il ricollocamento del ruolo oltre lo stereotipo costruito dalla modernità. Il nazionalismo tendenzioso viene fuori nella performanceViva España (2004) in cui Pilar in una piazza di Madrid viene inseguita da una banda musicale che inneggia il pasodoble «Que viva España» in cui si interrelazionano il sentimento popolare nazionalistico dei passanti e la violazione della propria privacy. Non manca in questo vibrante prisma referenziale l'allusione al potere attraverso la scultura Tartero (2004) in cui il toro diventa simbolo sacrificale del sangre y arena, dove il mondo rituale delle corride oscilla tra sentimenti di umiliazione e sacrificio, di sfida e di tragedia, di vinti e perdenti. Un toro impagliato a dimensione reale è inginocchiato ma non privato del proprio orgoglio, «colto» nell'istante in cui prima di finire a terra dà l'ultimo sguardo al matador che infierisce su di lui con la stoccata mortale.

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