«Io non ho le mani, solo con uno sforzo possono definirsi tali. Io ci ho fatto l'abitudine. [...] Sergej le mani le aveva. Due mani forti e perfettamente normali. [...] Sotto la cintola aveva due gambette rattrappite perennemente incrociate nella posizione del loto. Dalla cintola in giù non sentiva assolutamente nulla, ragione per cui era costretto a girare con il sacchetto per l'urina. Quando l'urina traboccava, si cambiava i pantaloni da solo. Non aveva bisogno di chiamare le inservienti, di umiliarsi e di chiedere aiuto. Era lui ad aiutare gli altri, quelli più sfortunati». Man mano che si procede nella lettura di Bianco su nero (Adelphi, trad. di Elena Gori Corti, pp. 187, 14) appaiono figure che, come gli storpi di Bruegel, arrancano su carrelli, strisciano in terra privi di arti, restano distesi sul dorso, incapaci delle incombenze più elementari; i fortunati, i deambulanti, si appoggiano su stampelle, o hanno in uso una sedia a rotelle. Siamo negli orfanotrofi russi degli anni `70 e `80. Il protagonista, la voce narrante, parla di sé. Bianco su nero è infatti il racconto autobiografico di Rubén Gallego. Un racconto che gli affiora alla mente già scritto, di notte, stampato sul soffitto di quella che finalmente è la sua casa. Non deve far altro che trascriverlo al mattino sul computer, usando l'indice della mano sinistra, il solo dito che riesca a muovere. Gallego aspira a un'asciuttezza monastica: nessun «orrendo», «terribile», «mostruoso», nessun compiacimento nella scrittura. Bianco su nero. «Il bianco è il colore dell'impotenza e della dannazione, il colore del soffitto d'ospedale e delle sue lenzuola. Cura e tutela garantite, silenzio e quiete: il nulla della vita d'ospedale che scorre all'infinito. Il nero è il colore della lotta e della speranza. Il colore del cielo notturno, lo sfondo fermo e nitido dei sogni, delle brevi pause fra gli intervalli diurni, bianchi e sterminati, delle infermità fisiche. È il colore del sogno e della fiaba, il colore del mondo dietro le palpebre chiuse. Il colore della libertà, il colore che ho scelto per la mia sedia a rotelle elettrica».
Gallego ci chiama a volgere lo sguardo a quel soffitto dove vede ripetersi le scene della sottrazione di mondo, ma anche del mondo che ha trovato nella sottrazione. Senza stare al suo gioco, si richiuderebbe il libro alla seconda pagina. Efferato, viene da mormorare man mano che si procede nella lettura. Un libro efferato. Nel senso di feroce, sì, ma soprattutto nel senso dell'attributo araldico del lupo, dell'aquila che afferra la preda. Artigli rapaci sono le sue parole piane, prive di autocommiserazione, venate di ironia, capaci di esplodere in gioiosa pienezza di esistenza. Gallego è aquila e lupo, accetta soavemente il dolore e la morte («senza fare i cattivi», diceva Rilke). «Sono un eroe. È facile essere un eroe. Se non hai le braccia o le gambe, o sei un eroe o sei morto».
Non sporcare è il comando supremo, non pisciare nel letto, non defecare nelle mutande, non vomitare, non sanguinare sul pavimento. Altrimenti le inservienti hanno ragione a tormentarti, costrette a prendersi cura del tuo corpo ripugnante, pesante, faticoso. Pesi, fagotti inerti oppure striscianti, colpevoli di non deambulare, di non essere autonomi. Allora dimagrire, perdere peso, essere nulla. Un nulla che non incomodi nessuno.
«Sono piccolo. È notte. È inverno. Devo andare al gabinetto. Inutile chiamare l'inserviente. Ho una sola possibilità: strisciare. Per prima cosa devo scendere dal letto. So come fare, il metodo l'ho inventato io. Semplice: mi trascino carponi fino al bordo del letto e poi mi ribalto, lasciandomi cadere sul pavimento. Una botta. Dolore. Arrivo strisciando alla porta, la spingo con la testa e sbuco in corridoio».
Quasi una riproposizione in corpore vili della figura di quel Gregor Samsa che, nella Metamorfosi di Kafka, un mattino si sveglia scarafaggio, le zampette rattrappite, la necessità di strisciare, la completa dipendenza dai genitori e dalla sorella. Dopo essersi trasformato in cosa, dopo aver perso le caratteristiche leggibili dell'umano agli occhi del suo universo affettivo, Gregor smette di mangiare, si lascia morire, toglie il disturbo.
Insetti striscianti. Gli ebrei per i nazisti, i tutsi per gli hutu. Un'immagine che si ripete, rendendo possibili i lager, i gulag, i piani eutanasia, i manicomi, gli ospizi. La disposizione a non vedere nell'altro più nulla di umano fa sì che se ne possa decretare la fine. E il baluginio dell'umano che ancora si riaffaccia in quello che ormai è allontanato come altro da sé, produce un turbamento insopportabile che subito si converte in rabbia, risentimento, bisogno di ridare legittimità alla propria indifferenza, o alla propria repulsa, riportando l'individuo al suo statuto di cosa.
Nel 1968, anno della Primavera di Praga, Aurora Gallego, figlia del segretario del Partito comunista spagnolo in esilio, mandata a Mosca dal padre per un periodo di «rieducazione», si trova nell'esclusiva clinica del Cremlino dopo aver dato alla luce due gemelli nati da una breve relazione con uno studente venezuelano. Uno dei due muore qualche giorno dopo il parto, l'altro, Rubén, è affetto da una paralisi cerebrale infantile. Trascorso un anno e mezzo, il padre di lei, segretario in esilio del Partito comunista spagnolo, dispone che il bambino venga ricoverato in un orfanotrofio per disabili, in un luogo segreto riservato ai figli dell'élite comunista. Da lì, tre anni dopo, Rubén viene trasferito in un istituto nei pressi di Leningrado; sarà solo l'inizio di una sequela di centri per disabili disseminati per l'Unione Sovietica: Trubcevsk, Ninji Lomov, Novocerkassk. Dal 1986 al 1990, il «negro» - come lo chiamano, a causa della sua pelle scura, le inservienti degli orfanotrofi - vivrà in un istituto destinato ai ragazzi incapaci di esercitare una professione, ultima tappa prima del manicomio o di un ospizio per adulti non autosufficienti, nel quale la maggior parte dei degenti muore d'incuria. «Avevo paura di finire in un manicomio o in un ospizio da che avevo dieci anni. Evitare il manicomio era semplice. Bastava comportarsi bene, obbedire agli adulti e non lamentarsi mai. Chi si lamentava che il cibo era cattivo o se la prendeva per come si comportavano gli adulti, ogni tanto finiva in manicomio.[...] In ospizio ci finivano tutti quelli che non camminavano. Senza motivo, giusto così».
Nell'ospizio per adulti, il primo piano è riservato a chi ha ancora la forza nelle braccia per spingere il carrello fino al gabinetto, per chi riesce ancora a reggere il cucchiaio e a mangiare da solo. Ma gli uomini, le donne che vengono spostati in un letto del secondo piano, sono condannati a morire nei propri escrementi, senza nessuno che imbocchi loro il cibo, senza nessuno che tocchi più il loro corpo, che rivolga loro una parola. Un giorno, Rubén viene trasferito all'ospizio. «Qui muore nel giro di un mese, due al massimo», dice un responsabile al direttore dell'orfanotrofio, «e io posso seppellire solo chi ha già compiuto 18 anni». Rubén ne ha 15, e il direttore è costretto a riprenderlo.
Nei successivi cinque anni, Rubén sarà trasferito in altri istituti, finché, ventenne, riuscirà a scappare dalla Russia approfittando del disordine generale della perestrojika. Arrivato fortunosamente a Praga, ritroverà la madre che non aveva mai più visto, così come mai più aveva visto il nonno, Ignacio Gallego. Fin da piccolo gli era stato insegnato, nelle aule in cui gli alunni provavano a scrivere tenendo la matita tra i denti, sdraiati sul pavimento ghiacciato, quanto era fortunato a essere nato in Urss, dove i bambini handicappati non venivano ammazzati come in America e dove il Comitato centrale del partito vegliava su di loro. «Allora non sapevo di avere il miglior nonno del mondo. Il migliore in assoluto. Non sapevo che mio nonno era segretario generale di un partito comunista. Non sapevo che aveva combattuto per la libertà del popolo spagnolo. [...] Era il nonno più buono del mondo, buono come nonno Lenin, come Breznev. Noi tutti sapevamo che Breznev voleva molto bene ai bambini e che ogni giorno si adoperava perché gli scolari sovietici avessero un'infanzia felice».
Adesso Rubén Gallego vive in Spagna, con la madre e la sorella, dopo essersi laureato in legge ed essersi sposato due volte. Due mogli, due figli. Una famiglia ritrovata. La scrittura. Che è come una baionetta, dice, con un solo colpo in canna. Senza rivalsa, senza astio, senza accusa. L'anno scorso gli è stato assegnato il Booker Prize russo, il massimo riconoscimento letterario dell'ex Urss. Ha un suo sito, dove lettori e ammiratori gli scrivono, lo ringraziano, gli mandano messaggi di solidarietà. Dalla sua casa di Madrid risponde a tutti, battendo sulla testiera con l'indice della sinistra. Gli chiedono: «Cosa ne pensi di questo mondo in cui ci è toccato vivere?». Risponde: «È un buon mondo. Le ragazze sono belle e ci sono molte patate». Gli chiedono: «Cos'è che ti dà la forza di alzarti dal letto tutte le mattine? Con tutta la mia ammirazione per il tuo esempio». Risponde: «In generale, ho bisogno di fare la pipì. Come vedi non c'è nulla di cui essere ammirati». Gli domandano: «Tiene algún punto débil?». Risponde: «No puedo cagar sin ayuda de otra persona. Perdone la expresión». Dateci le lacrime delle cose, e risparmiateci le vostre, diceva Francesco De Sanctis.