IL CAPITALE

La libera società

NEL NOME DI CAFFE'
CAVALLARO LUIGI,MONDO

Per uno di quei misteriosi casi della vita, il 1944 vide apparire contemporaneamente tanto il manifesto politico del moderno Stato del benessere quanto la sua critica, vale a dire Full Employment in a Free Society di William Beveridge e The Road to Serfdom di Friedrich von Hayek. Di celebrare la ricorrenza della critica si è occupato nei giorni scorsi il Sole-24 Ore, con un'articolessa a tutta pagina del premio Nobel Amartya Sen; non della ricorrenza del manifesto, invece, alla quale si può solo dedicare una rubrica piccola piccola come questa. L'oggetto del libro di Beveridge è riassunto nel titolo (allora i titoli servivano a questo) ed è, appunto, come si possa conseguire la piena occupazione in una società libera. È proprio la libertà che fa problema, dice Beveridge: «il problema di mantenere la piena occupazione è più complicato in una società libera che non in regime totalitario».

I motivi sono esposti fin dall'introduzione. Il primo è che in una società libera il governo cambia di frequente per via di elezioni, mentre occorre assicurare una «ragionevole continuità nella politica economica», almeno fino a quando non vi siano sensibili mutamenti nell'opinione pubblica al riguardo; diversamente, il governo diviene preda delle «pressioni organizzate degli interessi di parte».

Il secondo motivo tocca il conflitto salariale: «In una situazione di piena occupazione può impedirsi una spirale crescente dei salari e dei prezzi se la contrattazione collettiva, con il diritto allo sciopero, rimane assolutamente libera? È possibile in una società libera in tempo di pace limitare in generale il diritto di sciopero?».

Il terzo motivo sta nella libertà di ciascuno di scegliersi un'occupazione, che «rende più difficile assicurare che tutti [...] in qualsiasi momento siano produttivamente occupati. Essa non consente di trattenere una persona forzatamente in un determinato lavoro o di indirizzarla verso quest'ultimo con la minaccia della prigione in caso di rifiuto». Inoltre, se in una situazione di pieno impiego i lavoratori sono «liberi di passare da un impiego all'altro e non temono licenziamenti, non possono almeno alcuni di essi diventare così irregolari e indisciplinati da ridurre sensibilmente l'efficienza dell'industria?».

Il quarto motivo concerne «la libertà di amministrare il proprio reddito». Se a nessuno può essere imposto di comprare quel che le industrie hanno prodotto, «ciò significa che la domanda di lavoro e dei prodotti del lavoro non può essere adattata coattivamente all'offerta»; e se a nessuno può essere imposto di consumare il proprio reddito, invece di risparmiarlo, analoghi problemi di coordinamento sorgeranno fra risparmi e investimenti.

Nonostante queste difficoltà, Beveridge era ottimista circa la possibilità di conciliare il diavolo e l'acquasanta, purché si abbandonasse la credenza che potessero provvedervi le libere forze del mercato e si adottasse «una intelligente ed elastica pianificazione» mediante «la impostazione di un nuovo tipo di bilancio dello Stato». Il Ministro dell'Economia, infatti, avrebbe dovuto decidere cosa fare e come farlo «con riferimento al potenziale umano disponibile, non al denaro», quindi avrebbe dovuto all'occorrenza «essere disposto a spendere più di quanto sottrae ai cittadini con la tassazione»: infatti, «il potenziale umano», cioè la forza-lavoro, «è un dato che non può essere variato dall'azione statale; prendere come dato qualche altro elemento e cercare di adattare il potenziale umano significa rischiare di creare masse disoccupate o sovraffaticate».

Beveridge, inoltre, era ottimista circa la possibilità che ad un risultato del genere si arrivasse «anche lasciando la gestione dell'industria prevalentemente nelle mani dell'iniziativa privata», ma ottimista cum grano salis: «se l'esperienza o la logica dimostrassero che l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione fosse necessaria per assicurare la piena occupazione, questa abolizione dovrebbe essere intrapresa».

Mi verrebbe da pensare che in questo suo convincimento possa risiedere il motivo per cui il quotidiano di Confindustria si è dimenticato del suo libro. Ma è solo un'insinuazione, di cui chiedo venia al Sole e ai lettori.

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