VISIONI

La strana mossa di Tom Waits

CORZANI VALERIO,USA

Diamoci una mossa, si deve esser detto Tom Waits al momento di iniziare i lavori. Come un qualsiasi capomastro. Come un macchinista. Come l'abile manovale che è stato quando era ragazzo. I lavori in questione servivano ad avviare il «planning» di un nuovo disco, che è poi diventato Real Gone (da venerdì nei negozi), mentre il metodo e l'attitudine, da artigiano cocciuto, avevano a che fare con la sua storia di adolescente tuttofare. Waits intorno alla metà degli anni '60 - ce lo racconta la corposa biografia pubblicata in questi giorni da Arcana, Wild Years - «si fece largo tra una serie di lavori: portiere, cuoco, lavapiatti, tassista, pompiere, fattorino, benzinaio, perfino venditore di vermi ai pescatori. (...) Waits più avanti ha parlato di sé in quel periodo descrivendosi come un `cazzone tuttofare'. Ma tutti quei lavori erano solo un modo per arrivare dove voleva». Dove voleva ci è arrivato, come sappiamo. E l'artista californiano lo ribadisce, mostrando una vena in gran spolvero, con il suo nuovo album, in cui «darsi una mossa», ha voluto dire innanzitutto «muovere» le ritmiche delle canzoni e farlo in un modo che ha strane, sorprendenti similitudini con le scelte espressive contenute nel canovaccio sonoro di Medulla, nuovo parto discografico della cantante islandese Björk. Se a Björk e a Tom Waits viene la stessa idea, è il caso di approfondirla. Entrambi hanno sfornato un disco pieno di voci (Waits anche di chitarre, ma questa non è una novità), entrambi hanno deciso di sostituire batteria e drum machine con lo «human beat boxing».

L'opzione è simile - una ricerca della carnalità del ritmo che finisce per scegliere come sorgente di pattern lo strumento più viscerale, l'ugola umana - il risultato finale, naturalmente, molto diverso. Björk ne ha tratto materiale per incorniciare le sue algide strutture avant-pop, Waits ha condito quei groove con le chitarre fulminate di Marc Ribot e con i bassi di Les Claypool e di Larry Taylor, miscelando il tutto in una formula che lui stesso ha definito «cubist funk». E se Björk ha ingaggiato il fenomenale Rahzel, Mc dei The Roots, per incanalare il beatbox, Waits ha fatto molte cosette da solo anche dal punto di vista della human drum machine. Così, in canzoni come Top of the Hill e Metropolitan Glide, è come se «Rahzel si mettesse a fare una jam coi Taraf De Haidouks» e il circo di Waits assumesse lugubri, potenti, baluginanti strutture e energie. Se a tutto questo si aggiungono le decine di rumori, scricchiolii, botti, affidati alla maestria funk di Brain Mantia nonché alle percussioni e alla dj art del figlio Casey, si può senza problemi immaginare la novità di questo caravanserraglio. Con i pattern ritmici che sembrano arrotolati manualmente, stirati come si stira la pasta, messi in circolo senza troppa fiducia: eppure, miracolosamente, fatti girare a palla. L'immagine che viene alla mente è quella di un batterista che ha a disposizione una cucina, un'officina e un pollaio e gira con due mazze da un ambiente all'altro. Un'immagine non forzata se si pensa ad alcuni dei ricordi waitsiani inseriti nel primo capitolo della biografia; ricordi ancora pregni di flashback professionali: «Riparavo le biciclette di tutti quelli del quartiere. Ero il piccolo meccanico del quartiere». Le officine, Waits, le conosce bene, così come i ristoranti putridi; i pollai pure, visto che proprio tra galli e galline ha piazzato lo studio casalingo dove elabora tutte le sue pre-produzioni. Girovagando tra gli ambienti, Waits si è perso il pianoforte - «che pure c'era ma non l'ho usato nemmeno per comporre» ha dichiarato - ed è la prima volta, dopo più di 30 anni.

Anche questo conta nel risultato finale e nell'elaborazione di un suono affilato e scarno, accoppiato a racconti e storie dalle tematiche poco convenzionali. «Canzoni - come ha scritto lo stesso Waits al suo fanclub italiano - su mamma, liquori, treni e morte. Politica, topi, guerra, impiccagioni, balli, pirati, fattorie, il carnevale e i peccati. In altre parole il solito vecchio sporco lavoro». Un lavoro che il songwriter di Pomona continua a fare con grande dedizione, a dispetto di un'ingiusta fama da pigro, e con il solidale e empatico aiuto della moglie Kathleen Brennan, i cui testi si appoggiano alle musiche del compagno con naturalezza sorprendente. Facendogli raccontare le cose attraverso un punto di vista, per così dire, «ermafrodita», non neutro, ipersensibile e problematico piuttosto; levigando le liriche per un decantare, come quello di Waits, che è spesso triturante, distorto, sfilato, fetale. La voce di Waits (ripresa, per quanto riguarda tre brani, direttamente dal bagno di casa) assume in questo album più registri, nessuno dei quali vuol essere suadente. Quando va bene la sua grana è quella di un baritonale sussurro, quando va male (o meglio, dipende dai gusti) si trasforma in un opaco, violento, brusio. In mezzo a questo spoken word circense e felliniano, l'andatura caracollante - alla Clap Hands per intenderci - di una lunga cavalcata narrativa come Sins of My Father marchia fortemente il palinsesto dell'album. Undici minuti di racconto e borbottio. Undici minuti di suono scarno, con Ribot a dividersi tra banjo e chitarra, e una storia che narra fallimenti personali e collettivi. Con una promessa di redenzione. Meno eclatante la traccia conclusiva, Day after Tomorrow, musicalmente il pezzo più debole del disco con un arrangiamento country-folk e testi pacifisti. Vi si traspone, infatti, la lettera di un soldato che sta per tornare a casa dal fronte, tra sommessi e cupi presagi infilati, con fare disinvolto, nel tappeto rassicurante di una slide guitar. Poi, quasi che Waits temesse di aver disperso in questo modo i tanti segnali eversivi dei brani precedenti, arriva una ghost track tutta percussiva (coi tamburi «fatti di voce» di cui si diceva). Ribadendo in extremis il profilo di una musica «real gone», davvero fuori di testa».

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