La sera di Rosh ha Shana i ragazzi israeliani sono ospiti della Comunità ebraica veneziana. Camminano silenziosi, vestiti a festa, alcuni con le kippà bianche e ricamate. Dietro, il gruppo di palestinesi li segue, pure loro in silenzio e con gli occhi rossi, ognuno con un indumento nero. Si dividono: i primi in Sinagoga per il capodanno, gli altri al ristorante palestinese a cento metri dal Ghetto. Li separano solo un canale e una fondamenta. Da poche ore è arrivata la notizia che l'esercito israeliano ha compiuto un'incursione a Nablus. Undici morti. La mattina i ragazzi hanno vogato tutti assieme in laguna e poi, di ritorno, ballato e riso sul barcone verso S.Erasmo. Le notizie da Nablus li riportano alla realtà, al fatto che sono nemici. Si ritrovano dopo cena per un tour by night tra le calli e i pub, ma la passeggiata si consuma in pianti. Lacrime tra i palestinesi, scossi e impauriti, pieni di rabbia. E lacrime tra gli israeliani, che non sanno cosa fare per consolare gli altri. Nevin sussurra: «non posso guardarli in faccia». Cinquanta ragazzi sono a Venezia, per una settimana di convivenza: palestinesi di Nablus, israeliani di Rishon Le-Zion e catalani dell'associazione «Rai», oltre agli studenti veneziani dei licei «Marco Polo» e «Giordano Bruno». E' il progetto «Tu, noi», conclusione di un lavoro di cooperazione internazionale in Medio Oriente del comune di Venezia. Film, musica, passeggiate, laboratori creativi e forum di discussione: per sette giorni i diciassettenni coinvolti nell'iniziativa sperimentano un modo di stare assieme. Tra slanci di entusiasmo e tonfi di gelo.
Le ragazze palestinesi sedute per terra si consolano tra loro. Gli uni e gli altri ci dicono: «Loro non capiscono la nostra sofferenza». Ma è evidente che il dolore è lo stesso. E' uguale per chi lo subisce e per chi, impotente, assiste. In realtà, nessuno riesce a mediare tra israeliani e palestinesi. Solo loro possono scegliere. E quella sera venti diciassettenni lo fanno. Qualcuno potrebbe dire che hanno agito una vera «pratica nonviolenta»: si sono presi del tempo. A mezzanotte vanno ognuno nelle proprie camere. Chi a dormire. Chi a pensare. Chi a mangiare cioccolata.
La mattina dopo i lavori riprendono. E pieni di creatività. Il workshop si anima come mai dall'inizio della convivenza: ne escono disegni, un «decalogo per il mondo» e soprattutto due storie. Una racconta di un gruppo di ragazzi che, tornando da Venezia in aereo, incontra una certa Carlotta. Lei sta andando in Africa dove c'è una guerra spaventosa. Le spiegano di aver inventato un software in grado di riportare la pace. Un peace-maker. Carlotta entusiasta li convince a proseguire con lei per risolvere il conflitto... La seconda storia racconta di una ragazza che trova il diario della mamma: legge con sorpresa che da giovane aveva trascorso una settimana a Venezia assieme a quelli che erano i suoi nemici, perché a quei tempi Israele e Palestina erano in guerra. La ragazza è meravigliata, perché ora vive in un paese in pace e non lo può immaginare in altro modo...
I ragazzi mettono in campo strategie per uscire dai vicoli ciechi. Ognuno rispetta l'altro, lo ascolta, ci discute animatamente, cerca di convincerlo. Si lanciano sul campo di calcio rigorosamente a squadre miste, sia per genere che per nazionalità e si sfidano attorno ad un pallone. Ogni sera che passa i tavoli nella grande cucina del Lato Azzurro - la strana e suggestiva casa per vacanze che li ospita - si mischiano sempre di più. Affollano i fornelli per cucinare i piatti degli altri. Oppure lasciano andare i loro corpi a sfiorarsi tra i ritmi house, pompati da un dj set montato in cinque minuti dai ragazzi dell'associazione «Bussola» dell'isola vicina di Burano. Alla serata conclusiva della Mostra del cinema, guardano un film-documentario sulla musica sarda: all'uscita, un po' ubriachi di immagini e di parole, ognuno nota ciò che li accomuna, i passi delle danze tradizionali assomigliano alla dabqa palestinese, il jazz fuso alle nenie ricorda il melting pot israeliano.
Nessuno dice che saranno in pace. O che qui hanno tentato di fare la pace. Non è possibile. Non dipende da loro. Alla fine Abdel si alza in piedi. Dice la cosa meno scontata di questo progetto: «Quando torniamo a casa, dobbiamo raccontare a tutti, ai nostri familiari, ai nostri amici, ai nostri compagni, quello che abbiamo fatto qui a Venezia».