REPORTAGE

Se l'Italia tramonta a Valona

SACCHETTO DEVI,ALBANIA

Un giovane poliziotto con fare stanco controlla i documenti dei migranti albanesi di ritorno e guarda con curiosità questa coppia di turisti italiani in viaggio verso Valona. I controlli doganali successivi nel porto di Brindisi sono alquanto blandi e si limitano ai documenti dell'automobile, nel tentativo forse di sopprimere i piccoli traffici indipendenti che passano da bagagliaio a bagagliaio. Il lento viaggio del traghetto - ci impiegheremo quasi nove ore per arrivare a Valona - contrasta con la rapidità degli scafisti che fino a qualche anno fa in due ore coprivano i 70 chilometri che separano le coste italiane da quelle albanesi. Tra i 40 maschi, le 29 donne, i 20 bambini, l'unico clandestino e le 30 automobili che il traghetto trasporta, pochi sono gli italiani; l'Albania non è ancora una meta turistica, anche se forse presto lo diventerà. Nel traghetto la maggior parte delle auto sono di grossa cilindrata e portano targhe prevalentemente italiane, più di rado tedesche o albanesi.

I controlli sono un lusso

Alla dogana di Valona il controllo sulla regolarità del possesso dell'automobile è un lusso che forse non ci si può permettere. I controlli, anche qui, sono rilassati, anche se occorre sottoporsi al pagamento di diverse gabelle formali e informali per riuscire a entrare. Questuanti giovanissimi, venditori di sigarette di contrabbando, assicuratori automobilistici oltre alle autorità doganali e di polizia sono i principali soggetti che si incontrano appena si scende dal traghetto.

Le frontiere rimangono il regno dell'ambiguità quando lingua e costumi diversi si incontrano impedendo spesso a chi transita di cogliere appieno le nuove regole sociali e giuridiche. Ad ogni confine sorvegliato solitamente viene richiesto al viandante di pagare un obolo, talvolta in modo legale, altre volte illegalmente. La frontiera è uno dei luoghi dell'estorsione di denaro, dove vige il diritto del più forte. Il passaggio costa, produce burocrazia, amministrazione, catene di comando, timbri, documenti da produrre, denaro da scambiare, tasse da pagare. Ma alle frontiere il diritto rimane incerto ed è bene sempre conservare una certa dose di deferenza.

Giuseppe, il compagno della Rete Antirazzista che ci accoglie a Valona, ci spiega che in realtà i documenti di viaggio, il passaporto e il visto, possono essere sì elementi fondamentali nel caso di una migrazione, tuttavia solo il denaro conta perché «i soldi sono i documenti». Capiamo così che la fiducia nel denaro e la relativa affidabilità dei documenti, anche di quelli regolari, mostra tutta l'arbitrarietà del potere che si esercita alle frontiere.

Valona è una città in lenta trasformazione, ma secondo canoni ormai desueti anche in Occidente che ne deteriorano ulteriormente l'architettura precedente. Una parte di questi palazzoni sono costruiti grazie ai proventi dei traffici leciti e illeciti che hanno interessato quest'area nel primo decennio post-socialista.

Diversamente dagli investimenti nelle abitazioni, non vi sono stati ancora investimenti di rilievo nell'edilizia: dove il lavoro viene svolto senza particolare strumentazione o macchinari, affidato com'è al vecchio badile e alla carriola.

Valona è una città maschile e vorrebbe rappresentarsi anche come virile. Nei bar al mattino tra la clientela non vi sono donne, forse impegnate all'interno di qualche stabilimento a capitale italiano. Nel retroscena della virilità pubblica permane infatti forte il ruolo femminile; sono le donne comunque a mantenere in piedi la famiglia e a definirne la potenza.

In città si trova ogni genere di mercanzia, ma molte sono le merci invendute in Occidente che trovano qui un mercato forse più propizio. Tra i vari effetti dell'apertura dei paesi dell'Europa centrale e orientale il riversamento di merci in sovrappiù o semplicemente fuori moda nell'Occidente industrializzato, è tra i meno studiati, ma tra i più imponenti. Anche a prezzi ridotti, queste merci sono un lusso per molti qui a Valona, dove i costretti della catena guadagnano un salario medio di 100, 150 euro al mese. Ma quello di «salario medio» in tutti i Balcani costituisce sempre più un'espressione arrischiata.

L'economia del baratto e delle rimesse tira forte da queste parti. Quasi ogni famiglia ha un parente emigrato all'estero che spedisce qualche soldo quando può, ma Valona senza i suoi scafisti sembra perdere anche la spinta propulsiva: «Ora non ci sono più traffici e non ci sono più soldi in giro per Valona; i gommoni erano un'industria e quindi faceva girare tanti soldi, adesso tutto questo è finito». Dopo la crisi delle piramidi finanziarie e il blocco dei piccoli traffici gestiti individualmente, l'economia sta ristrutturandosi: i traffici di droga seguono altre strade, mentre il riciclaggio di denaro sporco sta devastando sia Valona sia la costa dove i nuovi palazzinari stanno costruendo i loro orrendi scatoloni.

La richiesta è calata

Visto da qui il blocco dei traffici dei migranti sembra in realtà essere una storia tutta economica. Carlo, giovane ingegnere che gestisce un centro Internet, fornisce la sua spiegazione: «Il traffico è stato fermato perché la richiesta del nord-est italiano di lavoratori albanesi in nero è calata. Prima ogni loro richiesta, per l'edilizia, per le piccole fabbriche, veniva accontentata subito dagli scafisti albanesi. Se non ci fosse stata richiesta di lavoro da parte italiana, non ci sarebbero stati albanesi che partivano. Perché qua si pagava tanto per un viaggio in gommone, non potevano rischiare i loro risparmi o addirittura indebitarsi se in Italia non trovavano lavoro». Oggi che le fabbrichette del nord-est sono in crisi e che i migranti rumeni arrivano più agevolmente, gli albanesi sono costretti a rivolgersi altrove.

Lungo l'arteria principale i normali rumori cittadini sono sovrastati dalle decine di generatori privati che rombano, garantendo l'energia che l'azienda elettrica locale va centellinando. Mentre l'addensamento di case annuncia il centro cittadino, le strade non sembrano essere oggetto di un particolare intervento; molte sono quelle che non hanno mai visto il bitume.

Eppure, ironia della sorte, a una trentina di chilometri da Valona, la miniera di Seleniza, tra le più antiche d'Europa, è una delle tre al mondo che estrae bitume allo stato naturale. Nella miniera lavorano circa 170 persone, meno di un decimo del periodo comunista, per uno stipendio che arriva fino ai 170 euro mensili. Gli abitanti di Seleniza non sono stati risparmiati dalla crisi delle piramidi, così come l'azienda, all'epoca di proprietà albanese: «La società era collegata alle banche perché avevano investito in queste banche, così quando c'è stata la bancarotta anche la società mineraria è fallita», racconta uno degli operai.

Oggi la Seleniza Bitumi è di proprietà di investitori francesi e usa macchinari nuovi per il lavoro nelle ampie gallerie. Non mancano gli incidenti. Nel febbraio 2004 l'esplosione di una sacca di gas metano, improvvisamente apertasi mentre il martello pneumatico perforava la roccia, ha provocato una potente esplosione. Il bilancio è stato pesantissimo: 6 morti e 9 feriti gravi, 7 dei quali sono stati trasportati in elicottero presso il centro grandi ustionati dell'ospedale di Brindisi. «La triplicazione della produzione nell'arco di tre anni» vantata dal direttore della miniera, arrestato e poi rilasciato per quell'incidente, ha evidentemente qualche costo umano.

D'altra parte, anche da questa parte dell'Adriatico i contratti di lavoro a termine sembrano essere la regola: «Quando dobbiamo assumere le persone guardiamo l'età, lo stato di salute. Di solito assumiamo per tre mesi, come permette la legge albanese; così abbiamo l'opportunità di provare le persone e poi se si passa questa prova si viene assunti per sei mesi o un anno» - continua il direttore. «Il 40% della manodopera ha meno di 30 anni e lavora a 100 metri sotto terra dove c'è una temperatura di 18 gradi. Non c'è un particolare disagio a lavorare sotto terra; in questa stagione, che è così calda, si sta meglio sottoterra che in superficie». Non devono essere dello stesso avviso i minatori che dopo l'incidente, pur in una situazione di ampia disoccupazione, non ci hanno pensato molto a indire uno sciopero che è durato un'intera settimana per protestare contro la violazione delle norme di sicurezza.

Quasi tutti i maschi nel paese sono passati per la miniera, ma molti oggi sono emigrati sia all'estero (Italia e Grecia) sia verso le principali città albanesi. Il paese si è ridotto così da 10mila a 4mila persone, rendendo difficile anche il reperimento di manodopera giovane per la nuova società francese che gestisce l'impianto. Oggi però l'emigrazione sembra più difficile, perché «per andare in Italia servono 2-3mila euro per la strada illegale, clandestinamente» - racconta il dentista che in Italia c'è stato qualche anno fa per fare due soldi e acquistare le sue attrezzature. «Nel `92 ho comprato un visto all'ambasciata per due milioni e quattrocentomila lire e sono andato in Italia. Ci sono rimasto due anni e poi sono ritornato qui perché non posso lavorare come operaio per tutta la vita. Ho fatto l'università, avevo una laurea, volevo fare il dentista e così sono tornato».

Sono in molti gli albanesi che dopo qualche mese o anno in Italia tornano nel loro paese di origine, definitivamente o per qualche mese all'anno, come il proprietario di un bar sulla spiaggia principale: «Ho la carta di soggiorno e quindi faccio la stagione qui a Valona con questo bar e poi ritorno in Italia». Oggi le possibilità di emigrare sono inferiori a quelle di un tempo, ma la prospettiva del viaggio verso l'Italia campeggia nell'immaginario collettivo. Anche se le espulsioni o i respingimenti continuano a interessare tutte le famiglie albanesi. Chiara racconta: «Ho provato a venire in Italia con il traghetto di linea, ma senza documenti. Mi hanno trovata e rispedito indietro, adesso lavoro all'Alba, questa fabbrica italiana di confezioni».

Tornare dai delocalizzatori

Rispedire nel proprio paese un migrante significa sostanzialmente infrangere il suo sogno di agganciarsi a livelli salariali più alti e a diritti più certi rispetto a quelli del luogo di partenza. Il/la migrante deve così acconciarsi a ritornare nelle fabbriche delle delocalizzazioni italiane. Il blocco delle migrazioni gioca quindi a favore dell'espansione delle imprese straniere o comunque della possibilità per gli imprenditori locali e stranieri di disporre di un ampio bacino di manodopera da cui pescare.

Qui nelle fabbriche dei delocalizzatori il ritmo di lavoro rimane massacrante: «Nelle fabbriche degli italiani - continua Chiara - vi sono otto ore di lavoro piene, devi lavorare sempre e poi li hai sempre addosso; gridano sempre e se provi a ribellarti ti licenziano immediatamente». Anche Linda ha lavorato in una fabbrica di confezioni di proprietà di brindisini: «Ho lavorato per un anno e mezzo in una fabbrica di abbigliamento degli italiani, ma mi hanno messo in regola solo dopo sei mesi e non volevano pagarmi tutto lo stipendio e neppure l'infortunio e la maternità; allora abbiamo scioperato tre giorni e quindi hanno acconsentito a pagarcela. Prendevo 100 euro al mese, ma era difficile stare lì perché ti controllavano continuamente, non potevi neanche respirare. Poi mi sono licenziata, ho preso il titolo di infermiera e da tre anni faccio l'infermiera».

L'Albania continua così a rimanere una storia italiana, almeno quanto l'Italia è una storia albanese.



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