VISIONI

Corea, arte della memoria

INTERVISTA
MACRÌ TERESA,GWANGJU

Alla vigilia dell'inaugurazione della V Biennale di Gwangju (10 settembre - 13 novembre) abbiamo intervistato Roberto Pinto, assistent curator della prossima edizione coreana, una Biennale che ha una sua precisa struttura concettuale e che tenta di misurarsi con la realtà. Roberto Pinto, romano che vive e lavora a Milano, è sicuramente uno dei più lucidi e rigorosi curatori italiani, uno che ha sempre trovato nell'espressione artistica una interazione con l'esistente. Interessanti sembrano le premesse con cui ci introduce alla piattaforma della imminente edizione della Biennale.

Gwangju Biennal ha una sua genesi legata ad avvenimenti politici sviluppatasi nell'ultimo ventennio, ha ancora dei legami (concettuali) con la realtà sociale?

Vorrei fare una premessa sulla nascita di questa Biennale e sul fatto che abbia preso avvio proprio a Gwangju (che è una città di circa un milione e trecentomila abitanti). All'inizio degli anni Ottanta ci sono stati in questa città degli scontri in piazza tra studenti ed esercito in cui sono morti più di un centinaio di persone. C'era ancora la dittatura nel Sud, ovviamente filo americana e figlia della spartizione del Dopoguerra e della Guerra di Corea. Ma quelle proteste innescarono il processo di democratizzazione del sud della penisola. Una volta raggiunta la democrazia si è sentita la necessità di riflettere sulle modalità e le opportunità per preservare la memoria di quegli episodi e di quelle persone morte per le loro idee. La risposta è stata tradizionale e innovativa allo stesso tempo: da una parte erigere un sacrario in cui mediante monumenti e materiale audiovisivo si potesse spiegare quell'episodio divenuto Storia; dall'altra favorire la ripresa culturale di questa città che storicamente ha ricoperto un ruolo centrale per lo sviluppo intellettuale della Corea. Uno dei passi intrapresi in quest'ultima direzione è stato, nel 1995, quello di aprire una biennale d'arte contemporanea che potesse diventare una specie di monumento in progress e, allo stesso tempo, riconnettere una nazione dall'economia in prepotente ascesa in un tessuto di scambi internazionali anche dal punto di vista culturale. Quanto potesse essere importante questa manifestazione per la popolazione coreana lo testimonia l'afflusso di spettatori che ha oltrepassato quota un milione e 600 mila persone (la Biennale di Venezia oscilla in genere intorno ai 250 mila) per poi stabilizzarsi intorno ai 600/700 mila. Con questa premessa credo sia ovvio che ci sia un «sottofondo etico» in ogni edizione della Biennale. La prima edizione è stata diretta (e fortemente voluta) da Yongwoo Lee che è stato chiamato a dirigere anche questa edizione. Lui ha scelto due direttori artistici, Kerry Brougher e Suk-won Chang e quattro assistent curator: Milena Kalinovska, Chika Okeke, Won-il Rhee ed io. Per quanto riguarda gli spazi espositivi, così come a Venezia, ci sono degli edifici dedicati in uso esclusivo alla Biennale, ma anche una serie di mostre collaterali che saranno in giro per la città.

Questa Biennale è stata costruita su un meccanismo di interazione tra artisti e viewier-partecipants, puoi spiegare meglio questa scelta?

Il tema generale/titolo della Biennale, Grain of dust and drop of water (granello di polvere e goccia d'acqua, ndr), rispecchia le premesse etiche di cui accennavo prima: la polvere è qualcosa che noi vediamo come negativo, come qualche cosa da eliminare, però mischiandosi con l'acqua crea nuova vita. Ovviamente, questo pensiero può essere letto sia come la ripercussione artistica di una concezione buddista della vita, sia in termini ecologici: viviamo tutti sulla medesima terra e dobbiamo collaborare affinché non collassi completamente dal punto di vista ecologico e, aggiungerei, umano. In un certo senso può essere una riflessione sui necessari e naturali meccanismi di collaborazione presenti in modo stabile a tutti i livelli, anche quelli creativi-artistici che sono visti come il picco più estremo dell'individualismo (e spesso lo sono). L'idea di innescare delle collaborazioni, degli incontri, tra artisti e pubblico è quindi il punto «forte» su cui si basa questa edizione della Biennale di Gwangju. Su questo punto abbiamo lavorato molto. Abbiamo fatto un workshop con una sessantina di persone, in giro in tutto il mondo. Queste sessanta persone sono state scelte con una griglia, secondo degli studi fatti per l'Onu, di organizzazioni non governative, individuando tre possibili gruppi di appartenenza: un gruppo generico, le persone che fanno un lavoro «normale» (lo studente, l'insegnante, l'impiegato di banca, ecc.), un gruppo di «opinion leader» (in campo filosofico, religioso, ma anche aziendale o professionale), infine un gruppo di persone che si occupano di azione sociale o politica (ambientalisti, persone che si occupano di differenza di gender, oppure di diritti per gli omosessuali). Con questo, anche utopico se vogliamo, schema di lavoro, abbiamo riunito delle persone che non c'entravano niente con il mondo dell'arte, che probabilmente avevano visto o incontrato l'arte ma in nessun modo dei professionisti. Volevamo capire quali fossero le loro aspettative rispetto all'arte, quale ruolo può ricoprire l'arte per loro, in che modo l'arte possa anche cambiare la vita quotidiana. Con il workshop abbiamo raccolto tante idee, anche tante idee contraddittorie. E da quelle idee abbiamo iniziato il nostro lavoro di staff curatoriale, cercando di trovare degli artisti che fossero in grado di interagire con quelle idee e che potessero incontrare singolarmente i nostri viewer-participant e dialogare con loro per cercare di tirare fuori un lavoro che potesse essere frutto di quella discussione.

Quale è stato il lavoro curatoriale quindi preparatorio (tuo e degli altri curators) pre-Biennale?

Come dicevo, abbiamo cercato di lavorare come team nella scelta degli artisti, cercando di trovare la giusta combinazione sia con il tema in generale sia nel rapporto singolo con i viewer-participant. Ovviamente ci siamo occupati di aree geografiche differenti (personalmente mi sono occupato più di Europa e di centro America), ma non abbiamo fatto né progetti né scelto gli artisti in modo autonomo. In un certo senso abbiamo perso il ruolo tradizionale di inclusion/esclusion, non decidiamo più chi è bravo e chi non, per diventare dei mediatori culturali. Figure in grado, spero, di capire quali siano le persone più adatte a vivificare e sviluppare la formula del progetto proposto.

Che realtà artistiche e istituzionali e quale humus hai trovato a Gwangju?

L'humus, come si può immaginare è molto fertile, anche se credo che sia una città che fa da incubatrice, perché poi molti artisti giovani si spostano a Seoul (quando non a New York o a Londra) che è una vera e propria metropoli, con un nascente mercato dell'arte che permette anche agli artisti di sopravvivere facendo il proprio mestiere. Credo che sia fatale per tutte le città piccole o medie in cui si preparano grandi e importanti eventi, venir poi abbandonate per tentare di confrontarsi con i centri nevralgici di scambio. Prendi per esempio Venezia, è una città bellissima, c'è la Biennale, c'è un accademia a cui si è aggiunto recentemente lo Iuav, questo progetto interessantissimo della facoltà di Architettura, ma ben pochi artisti rimangono lì dopo aver finito gli studi. Per quanto riguarda la scena coreana in generale direi che sicuramente è una delle nazioni emergenti dal punto di vista artistico, ma questo non credo sia più in discussione da molto tempo.

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