PRIMA

Vento del sud

CASTELLINA LUCIANA,VENEZUELA

Quando il 12 aprile 2002 uno schieramento che comprendeva la Federcamera (la locale Confindustria); la dirigenza della Pdvsa (l'azienda pubblica petrolifera che contribuisce al 50% del bilancio statale, ma che devolveva il 70% dei suoi introiti al pagamento degli stipendi dei suoi quadri e dei dirigenti sindacali incorporati); il sindacato corrotto da tale pratica; l'alta (non la bassa) gerarchia ecclesiastica; i gradi superiori delle Forze Armate; i principali esponenti dell'oligarchia del paese e le loro televisioni (tutte quelle esistenti) operarono il colpo di stato, che portò alla destituzione e all'arresto del presidente regolarmente eletto del Venezuela, la Casa Bianca emanò un comunicato in cui si salutava «la restaurazione degli elementi essenziali della democrazia». Seguiti a ruota da analoghi riconoscimenti da parte di governi occidentali. Quando, due giorni dopo, sostenuti da una inedita mobilitazione di popolo che reclamava il ritorno del «suo» presidente, la parte dell'esercito rimasta fedele a Hugo Chavez ripristinò la legalità, gli stessi dichiararono che era tornato il dittatore reo di aver bloccato la privatizzazione dell'industria petrolifera e di aver varato la prima riforma agraria del Venezuela.

Ce ne è abbastanza per rallegrarsi tutti della vittoria - finalmente una! - riportata ieri dall'«indios selvaggio» che dal referendum revocatorio è uscito riconfermato nonostante la campagna a tutto campo condotta contro di lui da destre e sinistre bianche e «perbene». Che non «sopportano» - dicono - la polarizzazone del paese, come se il Venezuela non sia stato polarizzato sempre fra una moltitudine di poverissimi e una minoranza di ricchissimi. Che ora accusano Chavez di aver ottenuto la vittoria subdolamente: «comprando» il voto dei poveri con una politica a favore dei poveri!

Difficile dare lezioni di democrazia al Venezuela dopo la massiccia - 80% - partecipazione al voto. Jimmy Carter, alla testa di una delegazione internazionale incaricata di vigilare sulle operazioni, ha rilasciato dichiarazioni entusiaste, forse pensando al suo paese dove neppure si arriva al 50%, un livello di astensionismo ormai imitato anche da noi europei. Questa passione politica è uno dei risultati della democrazia partecipativa «bolivariana», un modello che si comincia a praticare nel continente: in Venezuela, ma anche in un crescente numero di comuni di grandi città in Brasile e Uruguay e che è diventata obiettivo di grandi movimenti. Eppure è proprio questo modello, che rispetta le regole democratiche ma combatte, attivando la partecipazione di base alla gestione della società e delle istituzioni, la dipendenza di un elettorato sempre più spoliticizzato e egemonizzato dai media e dalle lobbies dei potenti, che può rappresentare uno storico passo in avanti per la sinistra latinoamericana fino a oggi divisa fra suggestioni guerrigliere, populismi e illusioni democraticistiche.

La vittoria di Chavez ha in questo senso un significato che va ben al di là del Venezuela. Certo resta il problema per il presidente riconfermato di costruire attorno al proprio governo un consenso più vasto del 58% conquistato. È indubbio. Ma non aiutano certo le grida con cui l'opposizione ha accolto il risultato del referendum denunciando brogli che nessun osservatore internazionale ha visto. Più saggiamente questa volta ha reagito il mercato, che ha accolto la vittoria di Chavez con un piccolo ribasso - 23 cents - del prezzo del petrolio. Il successo del presidente indios del Venezuela, che fa seguito ad altre grandi e piccole vittorie della sinistra del continente, sta forse insegnando che non è più così facile garantirsi il controllo dei paesi latinoamericani a colpi di Pinochet.

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