STORIE

La Harlem del giovane Tiziano

UN RICORDO DI TERZANI
PUGLIESE ENRICO,ITALIA

Dopo l'11 settembre comparvero sul Corriere della Sera gli articoli di Tiziano Terzani sull'Afghanistan, poi pubblicati nel volumetto di Longanesi Lettere contro la guerra. Gli articoli e poi il volume hanno avuto una grande importanza nell'orientare l'opinione pubblica colta italiana in direzione pacifista, ma soprattutto nel far comprendere aspetti e dimensioni nuovi del rapporto tra Occidente e Oriente e la realtà e le sofferenze della gente in Asia,in particolare in Afghanistan. Fui perciò molto contento quando la facoltà di sociologia dell'Università di Napoli decise di invitarlo a discutere da noi il libro. Tiziano rispose con cortesia spiegando i motivi per i quali non poteva venire e aggiunse che gli avrebbe fatto molto piacere venire a Napoli anche per vedere me, che all'occasione definiva «una persona uscita trentaquattro anni fa dalla mia vita senza il mio permesso».

Era vero e non. La sua vita ricca e avventurosa è stata affollata di gente di ogni parte del mondo, di ogni età, di ogni classe sociale. Tiziano era una personalità affascinante con schiere di amici di grande valore, che avevano preso forse anche il mio posto. E in questo senso davvero avevo finito per uscire dalla sua vita. Ma non era vero in alcun modo il reciproco: Tiziano non è mai uscito dalla vita mia e della mia famiglia. Pur senza incontrarlo per decenni, ne avevo seguito le vicende tramite amici comuni ma soprattutto attraverso i suoi scritti e anche qualche estemporanea apparizione alla televisione.

L'ufficio postale di Times Square

A ogni libro che usciva mi sono accostato sperando che fosse un buon libro. E grande è sempre stata la soddisfazione nel vedere che effettivamente lo era. Una sorta di trepidazione un po' fuori luogo, ma che risaliva ai tempi lontani, quando a New York mi faceva vedere i suoi articoli per l'Astrolabio prima di spedirli, o me li raccontava mentre andavamo insieme a imbucare la raccomandata-espresso all'ufficio postale di Times Square, aperto notte e giorno. «Dai Puglia, scendi». E via nella metropolitana sulla 116ma strada.

La nostra vita quotidiana a New York la passavamo spessissimo insieme. Abitavamo vicini, studiavamo alla stessa università e molte cose ci univano, pur nella grande diversità di esperienze e modo di essere. Ho vivissimo il ricordo di quando nella chiesa di Morningside Park, nei mesi della rivolta studentesca alla Columbia University, Tiziano teneva in braccio durante il battesimo mia figlia neonata.

A quell'epoca il Concilio Vaticano II aveva già emanato quella colossale sanatoria che, eliminando il Limbo, forniva a tutti i giusti e a tutti gli innocenti non battezzati il permesso di soggiorno a tempo indeterminato per il Paradiso: una grande innovazione teologica della quale non era giunta chiara coscienza nelle parrocchie di Calabria. Perciò mia madre aveva spedito a New York mia sorella a battezzare la povera innocente: non si poteva rischiare che la bambina finisse nelle tenebre del Limbo per l'Eternità. Avevamo deciso di «non obbedire e non sabotare», ma alla fine decidemmo di aiutare mia sorella. E vennero gli amici più stretti, tra cui ovviamente Tiziano.

Ricordo che in quella chiesa gli unici «gentili», oltre alla battezzanda, eravamo Tiziano, mia sorella (che lui aveva deciso che si chiamasse «Concettina») ed io. Tutti gli altri erano ovviamente ebrei. Alla Columbia University infatti la popolazione studentesca ebrea si collocava intorno al cinquanta per cento e questa percentuale saliva molto più in alto tra gli studenti di sinistra e quelli di sociologia.

Tiziano era popolare tra i miei compagni di scuola. Molte di quelle ragazzine rivoluzionarie erano innamorate di lui. E i miei compagni guardavano estasiati sua moglie Angela. Ed era facile: bastava vederli e ascoltare qualche racconto o qualche interpretazione di Tiziano. D'altra parte ero io stesso a costruire il mito. Ero orgoglioso di quella amicizia, che per me era anche effettivamente protettiva. Tiziano era ancora un ragazzo (ventinove o trent'anni) ma a me sembrava gradissimo, un po' per la differenza di età, un po' per l'esperienza di vita che aveva alle spalle. Per me l'università americana era l'ovvio e naturale processo di prosecuzione degli studi universitari. Per Tiziano - ma l'hanno raccontato più meno accuratamente un po' tutti nei giornali dopo la sua scomparsa - si trattava di un ricominciar daccapo, di una nuova partenza dopo diverse altre.

Normalista, aveva rinunciato già da giovane a quella che allora si chiamava «carriera universitaria», per scarso interesse ma non senza un pizzico di rancore di classe nei confronti di quelli che invece avevano potuto seguire quella carriera in un'epoca nella quale la gavetta accademica si faceva gratis o a salario molto modesto. Certo, meglio di adesso: ma una situazione comunque proibitiva per un ragazzo povero. E Tiziano, quell'uomo sempre elegantissimo (mai overdressed), alto e sicuro di sé, con una certa raffinatezza di modi, era di decisa provenienza proletaria e quindi povera; e di questo menava un certo orgoglio.

D'altronde Tiziano orgoglioso lo era in generale. Da dove fosse uscito quel giovane dai modi da gran signore all'inizio non lo capivo. Ma poi notai come alle doti naturali egli unisse una capacità di apprendere a velocità supersonica: capacità che gli faceva apprendere stili, usi e costumi allo stesso modo in cui gli faceva parlare correntemente il tedesco, l'inglese, il portoghese e il giapponese. Il cinese invece venne dopo, tra la Columbia e soprattutto Stanford, per dove partì per una «full immersion» (fu la prima volta che sentii il termine) nell'estate del 1968. Lo ricordo vestito come red-neck: pantaloni e giacca jeans, capelli cortissimi - strano per New York. Partiva in macchina per attraversare l'America profonda, una nuova esperienza di viaggio.

In giro con i genitori

Allora aveva già girato mezzo mondo ma non ancora da giornalista. Aveva lavorato per la Olivetti, dove aveva raggiunto la condizione di dirigente. E ovunque nel mondo fosse stato era riuscito a portare, anche a costo di grandi sacrifici (suoi e di Angela) i suoi anziani (così almeno mi parevano all'epoca) genitori. Durante le mobilitazioni studentesche, alla quale io partecipavo da «militante», mi è capitato più volte di incontrare suo padre (un uomo piccolo e delicato) tra Faywether Hall e la Casa Italiana, che veniva a gustarsi la rivolta (e a far tifo).

Il rapporto con quel suo padre proletario mi faceva vedere Tiziano come la smentita vivente di `O Zappatore («Era meglio se te facevi zappatore: ca `o zappatore non sa scorda `a mamma» - Mario Merola). E questo fatto - che non c'entra nulla né con il Vietnam né con l'Afghanistan - era, a rifletterci, forse la qualità morale che apprezzavo di più in lui.

L'altra cosa che allora ammiravo era il coraggio, unito a una certa sfrontatezza e intraprendenza: qualità che credo gli saranno poi servite molto per le sue esperienze di giornalista. Trotterellando per New York appresso a lui mi sentivo sempre sicuro. Mentre noi eravamo in America ancora a volte bruciavano i ghetti e in meno di un anno ci fu l'assassinio di Martin Luther King e quello di Robert Kennedy.

Il giorno che uccisero King mia moglie, che lavorava al Metropolitan Hospital, ebbe dalla direzione l'ordine (insieme agli altri suoi colleghi bianchi) di non lasciare l'ospedale perché in quella zona di New York si temevano riots, o aggressioni ai bianchi. L'ospedale, che serviva pazienti neri (con più di un invalido per scontri con la polizia), si trovava tra Harlem e East Harlem. Sigrid decise di uscire lo stesso e Tiziano ed io scendemmo a piedi dalla Columbia per venirle incontro, in una New York per altro piena di poliziotti. In realtà non c'era alcun pericolo effettivo, tranne forse quello di essere guardati male dai neri. Ma con Tiziano andavo comunque tranquillo. E cercavamo insieme di capire cosa stesse succedendo: io da sociologo e militante, lui da studioso di affari internazionali e giornalista impegnato. Questo eravamo allora. E questo ci univa e ci divideva.

Battutacce sul «movement»

Lui guardava con una punta di scetticismo la mia scelta di militanza e di adesione al movimento. Era già troppo grande per prendere sul serio quelle ragazzine e quei ragazzini invasati. Ricordo ancora le sue benevole battutacce sul movement, come si diceva allora. Tiziano aveva deciso che avrebbe fatto il giornalista. Voleva essere - mi diceva - per la Cina quello che Edgar Snow (Stella rossa sulla Cina) era stato trenta anni prima. In effetti questo non gli riuscì, per il semplice fatto che non poteva riuscirgli: i tempi erano cambiati, era cambiata la Cina e forse era cambiato lo stesso presidente Mao. Non si trattava di far conoscere al mondo la lunga marcia di un popolo. C'era ormai una potenza con le sue glorie, le contraddizioni e anche i suoi orrori.

Arrivò in Cina diversi anni dopo. Se ben ricordo, erano gli anni della caduta della «banda dei quattro» e Tiziano inviava réportages per la Repubblica sottolineando la vivacità della nuova situazione, che però significava anche l'inizio del processo di de-maoizzazione. Credo che il suo rapporto con la Cina non sia stato felice o fortunato, contrariamente a tante altre sue esperienze. Ne parlò lui stesso sull'Espresso. La sua affermazione di giornalista e la sua notorietà mondiale avvennero qualche anno dopo l'esperienza americana, quando fu il primo giornalista occidentale a entrare in Saigon liberata e spedire da lì le sue corrispondenze.

Massimo Loche ne ha ben raccontato le circostanze nel suo articolo di qualche giorno fa. Comunque il bellissimo libro su quel tema Giai Fong. La liberazione di Saigon - edito in italiano da Longanesi - era uscito, non per caso, già in inglese. Poi vennero altri réportages e altri libri: la storia, forse un po' troppo lunga ma bella e in qualche momento commovente di un Indovino mi ha detto. E poi Buonanotte signor Lenin e via di seguito. Ora tutti stanno leggendo Un altro giro di giostra. Peccato che Tiziano non possa venire a presentarlo.

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