GUERRA

Il business della ricostruzione smonta il paese

IRAQ/USA
ALBERTI FABIO, MARCON GIULIO,IRAQ/USA

L'«Iniziativa per un grande Medio Oriente» che l'amministrazione statunitense ha portato un mese fa sul tavolo del G-8 di Sea Island in Georgia prevede, come strumento fondamentale «per la costruzione della democrazia» e la penetrazione degli interessi Usa nell'area, la realizzazione di una ampia rete di accordi di libero scambio con i paesi «amici» e la promozione dell'espansione del libero mercato nella regione. Il piano si scontra con la presa di distanza di Francia e Germania e con la condanna della Lega Araba, ma è già operativo. L'occupazione dell'Iraq è stata la prima mossa di questo progetto, come ha detto il presidente Bush fin dalla preparazione dell'attacco. A fianco delle, fin da allora improbabili, motivazioni della guerra legate alle (inesistenti) armi di distruzioni di massa e agli (inesistenti) legami di Saddam Hussein con bin Laden, Bush ha chiaramente indicato di voler fare dell'Iraq il «trampolino di lancio» di una operazione politico-diplomatica più vasta tesa a «ristrutturare» in profondità il Medio Oriente. L'aspetto militare dell'occupazione Usa ha sinora messo in ombra un altro aspetto, non meno importante: l'occupazione e la ristrutturazione economica dell'Iraq. In questo periodo si sta procedendo al cosiddetto trasferimento di poteri a un «governo iracheno», ora rappresentato dal premier Allawi. Quel che è certo è che non è un governo democraticamente eletto, né nominato da un corpo realmente rappresentativo della società irachena, bensì dagli occupanti stessi. Ciò sarà di non secondaria importanza per il futuro immediato di oltre 20 milioni di iracheni, che, in assenza di alternative politiche, si trovano di fronte alla scelta tra l'occupazione e la violenza. Ma qualunque sia il processo verso una restituzione di sovranità, reale, limitata o inconsistente, non è secondario quale paese verrà «restituito». Rania Masri - dell'Institute for Southern Studies (North Carolina), e profonda conoscitrice della realtà irachena - si chiedeva, già nei primi mesi dopo l'occupazione, se gli Usa intendessero «ricostruire» l'Iraq o piuttosto «de-costruirlo». Nessuna profezia poteva essere più azzeccata. La dottrina dei neoconservatori Usa tende a considerare l'Iraq una «tabula rasa» su cui costruire ex novo un paese «amico». E tabula rasa è stata fatta. In 12 mesi di gestione dell'amministrazione irachena, il proconsole Usa Paul Bremer ha inanellato una serie impressionante di «riforme» - illegali secondo le convenzioni internazionali sugli usi di guerra - volte a trasformare completamente il sistema economico sociale iracheno. E' stato riformato il sistema fiscale, bancario, degli investimenti esteri, sulla proprietà intellettuale, trasformando una economia già centralizzata in un sistema iperliberista che è stato definito «il sogno dei capitalisti». Nello stesso tempo è stata avviata - nonostante la contrarietà del Governing Council - una politica di privatizzazione complessiva della economia che prevede la messa in vendita di gran parte delle imprese pubbliche irachene. Se questa politica non ha ancora prodotto, o non ha prodotto in misura rilevante, l'assalto delle multinazionali all'Iraq è solo perché gli Usa non sono riusciti sinora a «stabilizzare» il paese, a fronte di una crescente resistenza armata e non armata, e il problema della legittimità degli atti della amministrazione Bremer ha frenato sinora l'assalto. Anche per questo gli Usa hanno accelerato i tempi del passaggio di poteri: un governo iracheno «legittimo» potrà firmare i contratti di svendita dell'Iraq che, se firmati da Bremer, potrebbero essere annullati. Non si tratta qui di pronunciarsi a favore o contro un sistema «di mercato» (...), ma di rivendicare il diritto degli iracheni, e di loro soltanto, di decidere il proprio futuro. Prima ancora che venisse emanata una costituzione definitiva (cosa che non avverrà prima del prossimo anno), l'Iraq è stato trasformato, e un futuro governo legittimo si troverà comunque ad amministrare un paese il cui profilo istituzionale è stato disegnato dagli Usa. Se si aggiunge che, nel frattempo, con un protocollo segreto siglato con il Governing Council (ma dichiarato illegittimo dall'ayatollah Ali al Sistani, la più influente autorità religiosa sciita del paese), gli Usa hanno iniziato la costruzione di 14 basi militari permanenti nel paese, si fa fatica a pensare che l'Iraq sarà mai indipendente.

Conseguenze negative di questa politica comunque ce ne sono già state: la mancata ripresa economica del paese e le grave situazione occupazionale derivano anche da queste scelte a cui, giova ricordarlo, l'Italia non è estranea. Ancora più negative, nel breve periodo, sono state le conseguenze di appaltare tutta la «ricostruzione» del paese a imprese straniere. Già nell'immediato dopoguerra le multinazionali degli amici (e finanziatori) di Bush avevano ottenuto appalti per 2,4 miliardi di dollari, e altri 18 miliardi di dollari di commesse sono stati assegnati nella prima metà del 2004. Mentre i primi contratti sono stati assegnati senza gara di appalto, la seconda tornata era di fatto preclusa alle imprese irachene a causa degli alti standard richiesti per poter partecipare alle assegnazioni. Tutto è stato quindi appaltato a imprese estere: dai servizi di sicurezza e di logistica per l'esercito (a corpi più o meno identificabili come mercenari), alla ricostruzione delle infrastrutture, alla redazione dei libri scolastici e persino alla «creazione della democrazia» (organizzazione di elezioni locali ecc.) affidata al Research Triangle Institute (North Carolina) da Usaid, l'agenzia del governo Usa per gli aiuti allo sviluppo. La conseguenza è stata che la ricostruzione non è mai veramente cominciata: pochi i cantieri aperti, con sempre maggiori quote di denaro assorbite dalle crescenti preoccupazioni per la «sicurezza» delle aziende statunitensi e dei loro funzionari, e da qualche tempo anche numerose rinunce agli incarichi. Se questo fiume di denaro fosse stato indirizzato invece verso l'Iraq e verso le imprese irachene, e fatto gestire dalle - sia pur provvisorie - istituzioni irachene, oggi forse non saremmo a questo punto. L'economia irachena si sarebbe probabilmente rimessa in moto intorno alla ricostruzione, la disoccupazione non sarebbe ai livelli insopportabili in cui continua a essere. La stessa sicurezza della popolazione sarebbe probabilmente di molto aumentata.

L'Iraq che gli Usa restituiranno, se mai lo faranno, sarà quindi un paese al tracollo economico, controllato militarmente, iperliberista e... fortemente indebitato. Il debito estero iracheno, tra spese per armamenti di Saddam, compensazioni di guerra e debiti contratti dagli Usa per conto dell'Iraq ammonta a molte centinaia di miliardi di dollari. L'Iraq è il paese più indebitato del mondo, tanto che nemmeno le più rosee previsioni di rilancio della produzione petrolifera potrebbero permettere di ripagarlo. La ristrutturazione del debito iracheno è contrattata da James Baker (già Segretario di Stato Usa sotto la presidenza di Bush sr. e «intimo» di famiglia) per conto degli Usa con i paesi creditori, e verrà utilizzata come ulteriore leva di controllo del paese. Non resta che il petrolio? Nemmeno questo: se la gran parte delle riserve saranno assegnate (dopo aver annullato i contratti in essere con compagnie francesi e russe) alle multinazionali dei paesi della Coalizione, modificando il tradizionale approccio iracheno dei «contratti di servizio» - che mantengono all'Iraq la proprietà del petrolio e pagano alle multinazionali i servizi estrattivi - in contratti di production sharing, con i quali la proprietà di quote delle riserve viene trasferita di fatto alle multinazionali. Ai soldati italiani di «Antica Babilonia» che stanno facendo la guardia al giacimento petrolifero di Nassiriya - 2,6 miliardi di barili di petrolio assegnati all'italiana Eni - qualcuno dovrebbe spiegarlo.

* Introduzione alla ricerca «Ricostruzione in Iraq, un gioco d'interessi», curata dalla campagna Sbilanciamoci, in collaborazione con Un Ponte per... Rete Lilliput, Ics, Lunaria, Altreconomia e Mosaico di pace. (Si può richiedere a sbilanciamoci@lunaria.org e allo 06 8841880).

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