VISIONI

Nella macchina del tempo

MUSICA
CORZANI VALERIO,ROMA

Ci sono generi musicali che vanno a braccetto con lo scorrere del tempo, senza preoccuparsene e insieme, senza sfidarlo. Ci sono al contrario ruoli dello show-biz che invecchiano più in fretta di altri e non superano la dogana delle stagioni e delle generazioni. Vedere sul palco Johnny Rotten all'età di 63 anni sarebbe patetico, vederci tra un quarto di secolo una qualunque delle innumerevoli lolite del pop non è né probabile né auspicabile. Pure Mick Jagger comincia ad avere qualche problema di credibilità, perché i suoi 63 anni fanno a cazzotti con la poetica aggressiva e trasgressiva della musica che i suoi Rolling Stones hanno coniato. Per gente come Brian Wilson, Paul McCartney, Simon & Garfunkel il discorso è certamente diverso. E il concerto di sabato scorso ai piedi del Colosseo, davanti a un serpentone di gente di cinquecentomila persone, è stato una lampante conferma di questo teorema. Simon & Garfunkel hanno chiuso a Roma un tour europeo di 12 date che si è mosso nelle arene e nei parchi del vecchio continente come una specie di macchina del tempo, nomade ed accogliente. I due, ci hanno abituato negli ultimi anni a queste roboanti reunion, lontane dal sofisticato e tutt'ora «esplorativo» mondo sonoro del Paul Simon solista, vicine invece all'idea di un'America che sembra aver bisogno come non mai di testimonial positivi, rassicuranti, se non proprio pacifisti, almeno pacifici. Gente come Simon & Garfunkel che sciorinando una scaletta implacabile è riuscita a solleticare in una splendida notte estiva il termometro emozionale di due, tre, forse quattro generazioni. La gente dei Fori Imperiali non aspettava altro e non è mai sembrata a disagio con la calvizie di Simon né con le rughe ben portate di Garfunkel. Il pop cantautorale dei due regge bene col passare degli anni e la sua rappresentazione scenica non ha bisogno di «viagra comportamentali», tanto che l'unica sfumatura davvero patetica dello show è coincisa con le flessioni aggressive di Paul Simon, in grado di imbracciare la sua chitarra acustica con maestria sopraffina, una maestria che non ha bisogno di pose.

Per il resto lo spettacolo fortemente voluto dal sindaco Veltroni e dal progetto Italia di Telecom ha lasciato scorrere i suoi 26 capitoli (bis inclusi) con un'efficacia fluida e rabdomantica. Qualcuno ha riconosciuto in brani come America, Kathy's Song, Homeward Bound, The Sound of Silent, Mrs. Robinson, The Boxer, il seme di un'adolescenza perduta, di falò dimenticati, di lotte speranzose; qualcun altro, più giovane, ne ha apprezzato più semplicemente il perfetto marchingegno sonoro fatto di impasti armonici, di melodie mai banali, di arrangiamenti perfetti compilati da una band nella quale hanno giganteggiato il batterista Jim Keltner e il chitarrista Mark Stewart. Il tutto seguendo la logica dello scuotere senza mai travolgere, del rovistare nel mare magnum delle possibilità pop senza mai farsene scorticare. Un'evoluzione felpata quella di Simon & Garfunkel targati sixties (per le rivoluzioni è meglio rivolgersi alla ditta Lennon-McCartney o al genio solitario di Brian Wilson) che però il concerto di Roma ha comunque confermato in pieno proprio nel suo nucleo centrale, quando sul palco sono arrivati gli Everly Brothers, ospiti speciali. Il confronto tra le canzoni dei padri putativi del duo, efficaci ma ancora intinte di rock'n'roll, di blue grass, di doo wop, ed il palinsesto sonoro di Simon & Garfunkel è sembrato davvero un percorso esemplare. Così come passare dagli spensierati refrain di Bye Bye Love all'inquieta, densa, quasi cameristica fotografia melodica di Scarborough Fair.

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