SOCIETÀ

All'ombra della Cap Anamur

SOSSI FEDERICA,AGRIGENTO

«Era tutto nero. Un grande fumo nero e non potevo vedere nulla». Era il 14 luglio 2004. I riflettori sui 37 profughi della Cap Anamur non si erano ancora spenti: dal giorno prima erano stati fatti scendere dalla nave, il tempo di un rapido saluto ai manifestanti che li attendevano al porto, con un cenno di mano dai finestrini del pullman, e poi, per loro, lo spazio dietro all'alto cancello e alle alte mura del centro di detenzione di San Benedetto, alla periferia di Agrigento. Correva voce, quel giorno - tra i manifestanti - che i 37 profughi sarebbero stati nuovamente trasferiti, non si sapeva dove. Poi d'improvviso quel fumo, e altrettanto improvvise l'apertura del cancello e una carica della polizia. Bilancio: tre ragazze ferite, il pomeriggio terminato all'ospedale, i 37 profughi trasferiti all'interno di un altro Centro, Pian del Lago, Caltanissetta: Centro di detenzione ma anche ufficialmente di identificazione, forse perché invece che da mura quello spazio di detenzione è cinto da una rete di ferro. Rimarranno lì, sequestrati per alcuni giorni alla vista e alle visite dei loro legali, 14 di loro non incontreranno mai un avvocato, trasferiti nella notte con pochi riflettori e solo i fari delle macchine di scorta dapprima a Catania, poi nel Centro di detenzione di Roma; altri 22 verranno trasferiti qualche giorno dopo, all'oscuro dei loro legali nelle prime ore del mattino.

All'ombra dei profughi

I loro destini cominceranno a differenziarsi: per tutti l'espulsione, in giorni diversi, per paesi diversi, forse diversi anche dai loro paesi di provenienza. Per uno solo un premio da parte del governo italiano: avrebbe detto la verità, avrebbe cominciato il viaggio dalla Nigeria e per questo sembra che possa rimanere in Italia. Da quel fumo, all'ombra della Cap Anamur, il 14 luglio spuntano altre storie. 15 uomini vengono trasferiti dal Centro di detenzione al carcere di Agrigento, solo uno di loro riesce a districarsi dal fumo: è minorenne, non può stare in carcere, non avrebbe nemmeno dovuto trovarsi tra le mura del Centro ma è una sottigliezza a cui nessuno baderà.

L'accusa per tutti loro: resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento aggravato, perché la struttura appartiene allo stato e perché il danneggiamento è stato praticato contestualmente a minacce. Da sei mesi a 5 anni per la resistenza, da 6 mesi a 3 anni per il danneggiamento aggravato.

22 luglio 2004. Mattino. I riflettori sui profughi della Cap Anamur si stanno quasi spegnendo. Solo alcuni di loro, 7, sono ancora in Italia, 6 al Centro di detenzione di Ponte Galeria, a Roma; si sono ribellati nella notte al loro rimpatrio forzato verso il Ghana. Il loro destino: essere rimpatriati, come gli altri che non hanno opposto resistenza alla deportazione. Mattino, Agrigento, aula bunker del carcere nuovo. In gabbia, alla sinistra del giudice, 3 persone: dei 15 uomini inizialmente accusati, uno era minorenne, nove sono stati scarcerati perché non avevano precedenti penali e incarcerati nuovamente nel Centro di detenzione di Agrigento, due da pochi minuti hanno patteggiato la pena. Nureddin, Jamel, Said: anche i loro nomi rimarranno inghiottiti da quel fumo nero da cui tutto era iniziato. Saranno pronunciati male, o non pronunciati affatto, confusi dalle parole confuse dei testi che si susseguono alla sbarra dei testimoni, tutti rigorosamente carabinieri o poliziotti, oppure operatori della Misericordia, la confraternita che gestisce il Centro di detenzione di Agrigento. «La peculiarità di questo processo è che i testi sono tutti poliziotti e carabinieri o operatori e che il luogo è chiuso», mi dice uno degli avvocati della difesa alla fine dell'udienza. Già. In fondo, la normalità di un Centro di detenzione e di uno dei tanti processi a degli immigrati detenuti lì dentro. Solo casualmente la normalità si è incontrata con l'eccezionalità mediatica dei profughi della Cap Anamur che però, nei pochi giorni di permanenza in Italia, hanno fatto esperienza proprio di quella normalità: continui trasferimenti da una detenzione a un'altra, qualche viaggio in pullman per raggiungere i luoghi chiusi, uno o due voli interni, poi il volo finale, la deportazione verso il presunto paese d'origine. Non solo i nomi, ma nemmeno l'aspetto fisico degli imputati riuscirà a districarsi dal fumo nero: «sono bruni con gli occhi marrone», la descrizione più quotata, sempre al plurale, nonostante il giudice, una donna, continui a ripetere che un processo si occupa delle responsabilità individuali. Sono bruni con gli occhi marroni, effettivamente, i tre uomini nella gabbia, due provenienti dal Marocco, il terzo dall'Algeria. Non sarebbe facile, probabilmente, nelle gabbie dei carceri, dei tribunali e dietro le mura dei centri di detenzione trovare magrebini biondi, con gli occhi azzurri. E quando la descrizione dell'aspetto fisico deve scendere nei particolari, senza che l'occhio possa girarsi per guardare chi deve identificare, la descrizione vacilla: «basso con i capelli ricci» e Jamel, alto con i capelli lisci, rimane perplesso, si passa una mano sul volto, accanto agli occhi, e chiede di essere accompagnato per qualche istante al di fuori della gabbia. La dinamica è oscura, a partire dal fumo nero. Un incendio, o due incendi: fuoco appiccato ai materassi della camerata di detenzione. Spento, il primo, da due operatori della Misericordia, spento, il secondo, già prima dell'apertura del grande cancello e della carica della polizia ai manifestanti al di fuori. E' questo che si riesce a intuire. Non sanno, forse, i testimoni, che a una delegazione di manifestanti che l'aveva incontrato qualche giorno prima dell'udienza il vicequestore aveva sostenuto che la carica, pardon, il modo scortese in cui la polizia aveva fatto spostare i manifestanti era motivato proprio dall'enorme incendio che si stava sviluppando al Centro.

«Ogni volta che faccio processi che riguardano extracomunitari, la valutazione della loro credibilità non è uguale a quella che viene data a un soggetto italiano o comunitario che venga sentito come imputato o come teste», dice Monica Malogioglio, altro avvocato difensore. I tre imputati durante questa prima udienza non vengono sentiti. Forse li si sentirà all'udienza di oggi. E comunque al susseguirsi dei testimoni alla sbarra la valutazione della loro credibilità, almeno da parte del pubblico - i ragazzi e le ragazze della Rete antirazzista siciliana - lascia spazio a occhi sgranati, sguardi che si incontrano, sorrisi non celati. Spranghe che dopo ore di testimonianze si scoprono essere filo di ferro, «ma di grosse dimensioni»; minacce terribili, quelle che motivano «l'aggravato» nel capo di imputazione e che poi si specificano in «sbirro» o, al massimo, in «sbirro di merda»; responsabilità individuali che diventano minacce corali, «sbirro di merda», avrebbe detto il primo imputato, «sbirro di merda» avrebbe detto il secondo. Anche l'italiano, per i testi, carabinieri e poliziotti con diverse responsabilità nel Centro durante la ribellione, può essere interpretato a piacimento. «La maggior parte», aveva risposto qualcuno all'avvocato che chiedeva chi avesse partecipato alla ribellione. «La maggior parte, dunque, non tutti», fa notare il giudice. «Beh, può significare anche tutti», suggerisce il testimone.

Lo stanzone dei ribelli

Difficile intuire davvero qualcosa. Unica certezza: tutti i detenuti presenti quel giorno nello stanzone da cui si alzava il fumo nero sarebbero stati fatti uscire da una porta che dava su un campetto di calcio recintato. Lì sarebbero rimasti sino a tarda sera, lì sarebbe iniziata la ribellione, da lì avrebbero opposto resistenza ai pubblici ufficiali, rigorosamente separati dai detenuti dalla rete di recinzione, da lì avrebbero inscenato la loro violenza e urlato le loro minacce: una violenza inscenata, appunto, nello spazio teatrale delimitato da una delle tante reti del Centro, con un cattivo regista che non sa che «sbirro» può essere al massimo un'offesa, difficilmente una minaccia. Un particolare, però, sembra trapelare: l'origine del malcontento. Per i 37 profughi della Cap Anamur era già pronto il pullman. Gli altri - profughi detenuti, detenuti minorenni, detenuti con precedenti penali, solo detenuti - avevano immaginato una corsia preferenziale riservata ai 37 grazie ai riflettori mediatici puntati sulla Cap Anamur. Ora sanno che il fumo nero è riuscito a inghiottirli insieme a loro.

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