CULTURA

Ulisse, la maieutica di Sylvia

PADOAN DANIELA,ITALIA

Parigi, marzo 1917. Una giovane e timida americana si ferma esitante sulla soglia della Maison des Amis des Livres, la famosa libreria della Rive Gauche. La proprietaria, una giovane scrittrice ed editrice francese, si alza dal suo tavolo e la invita ad accomodarsi. Le due donne trascorrono il pomeriggio a parlare dell'amore che ciascuna nutre per la lingua e la letteratura dell'altra. È così che inizia il libro di Noel Riley Ficht, La libraia di Joyce. Sylvia Beach e la generazione perduta (Il Saggiatore, pp. 559, 35 euro, traduzione di Tina D'Agostini e Monica Fiorini, prefazione di Liliana Rampello) ed è così che inizia l'amore tra Sylvia Beach e Adrienne Monnier. Due anni dopo, sorretta da quel sodalizio, Sylvia Beach darà vita a Shakespeare & Company, la libreria di rue de l'Odéon che diventerà simbolo di un'epoca e renderà possibile l'edizione del monumentale Ulisse di Joyce. Un'avventura straordinaria, in cui due librerie, l'una di fronte all'altra - contro ogni logica commerciale - costituirono un continuo rilancio della comune passione delle due donne, capaci di scegliere con passo sicuro tra i testi, le opere, gli amici di cui si circondarono per tutta la vita. Per intrecciare il mondo della letteratura francese e quello della letteratura americana e inglese, bastava «attraversare una sola piccola strada e passare da Shakespeare & Company alla libreria di fronte, la Maison des Amis des Livres di Adrienne Monnier» scrive Liliana Rampello nella sua appassionata prefazione, «due luoghi strategici in grado di mettere in relazione Europa e America, due culture, due mentalità, due lingue due letterature, decine di autori sostenuti, tenuti dentro da una stessa rete da due donne che si amavano e amavano l'arte».

I francesi - che conoscevano ben poco della letteratura americana, fatta eccezione per Whitman e Twain - rimasero impressionati dalla nuova libreria, con i suoi tappeti di lana serbi bianchi e neri, la tela da sacchi beige sulle vecchie pareti, i mobili antichi acquistati al mercato delle pulci, i ritratti di Whitman, Poe, Emerson e Wilde appesi come numi tutelari. «La forza di civiltà dei romanzi, della poesia, - dice ancora Liliana Rampello - era ben chiara agli inizi del secolo ad Adrienne e Sylvia, la cui opera è stata, da questo punto di vista, indubbiamente magistrale: passeuse è stata definita l'una, the go between l'altra, messaggere, ambasciatrici autentiche, astute diplomatiche, traduttrici di parole, costumi, cultura vivente».

La tessera di prestito di Shakespeare & Company divenne ben presto un documento d'appartenenza, un passaporto per un mondo d'elezione, improntato a un'aristocrazia delle lettere. André Gide, Paul Valéry, Ezra Pound, Valéry Larbaud, Gertrude Stein, Alice B. Toklas, Th. S. Eliot, Ernest Hemingway furono solo alcuni dei personaggi che frequentarono la libreria, spesso facendo letture pubbliche dei propri testi. Sylvia Beach, che dormiva su un divano letto in una stanzetta con un piccolo angolo cucina sul retro, si ritrovò in un ambiente che, come lei stessa si espresse, «era chiuso come un harem», ma che l'accettò con curiosità e gratitudine. Tra i gustosi episodi riportati con minuzia nel libro, ce n'è uno che rende l'atmosfera di aristocratico disprezzo nei confronti del «resto» del mondo. Il poeta Léon-Paul Fargue, amico intimo di Larbaud e ultimo esponente della generazione dei bohémien, ricevette da un conte una sprezzante lettera piena di errori di ortografia e rispose: «Monsieur, sono io la parte lesa. Spetta a me la scelta delle armi. Scelgo l'ortografia. Lei è un uomo morto».

Fu nel luglio del 1920, durante un ricevimento, che Sylvia incontrò Joyce, di passaggio a Parigi con l'amico Ezra Pound. Pur abituata ad avere a che fare con grandi letterati, un'improvvisa emozione la rese timida. «Il grande James Joyce?» gli chiese, incontrandolo nella biblioteca. «James Joyce», rispose lui, porgendole la fragile mano. Il giorno dopo, roteando compostamente il bastone di frassino - proprio come il suo personaggio Stephen Dedalus - Joyce si presentò nella libreria, con un abito di serge blu scuro, scarpe da tennis bianche e un cappello di feltro buttato un po' all'indietro sulla testa. Subito le parlò delle sue necessità: trovare un appartamento, nutrire e vestire la sua famiglia e terminare l'Ulisse. Sylvia decise che avrebbe fatto di tutto per aiutarlo, senza sospettare quanto l'impresa si sarebbe rivelata ardua. Nel febbraio del 1921, le editrici della «Little Review» di New York affrontarono un processo per aver pubblicato la sezione di Nausicaa dell'Ulisse, dal contenuto giudicato «incomprensibile» e «osceno», e presto nessuno volle più avere a che fare col libro. Gli editori che si erano detti disposti a stamparlo ritirarono la loro offerta. Joyce propose alla Beach di essere lei a pubblicare l'opera, e Sylvia si improvvisò editrice, convinta dell'importanza di «salvare l'Ulisse dal naufragio». Raccolse denaro grazie a sottoscrizioni in una ventina di paesi, scrisse centinaia di lettere, corresse le infinite variazioni delle bozze e si occupò delle esigenze della famiglia Joyce. Molte delle dattilografe che aveva ingaggiato si rifiutarono di copiare l'episodio di Circe, considerato il più indecente. L'ottava minacciò di buttarsi dalla finestra. La nona suonò alla porta di Joyce e scaraventò il manoscritto sul pavimento, senza nemmeno voler essere pagata per il lavoro svolto. Dopo aver trovato un tipografo di Digione disposto a stampare l'opera e averlo spinto con caparbietà ad assecondare l'instancabile lavoro dell'irlandese, che aggiunse quasi un terzo del testo in bozze, l'ultimo giorno di gennaio del 1922 Sylvia venne informata che il libro era pronto per andare in stampa. Due giorni dopo cadeva il quarantesimo compleanno di Joyce, e lei, che voleva a ogni costo portargli una copia in dono, costrinse il povero tipografo a una corsa contro il tempo. Con il cuore che le batteva come uno stantuffo, attese il treno da Digione, prese il pacchetto che le venne consegnato dal capotreno, si precipitò in strada, fermò un taxi e raggiunse il numero 9 di rue de l'Université, dove abitavano i Joyce. «Dio», come molti nella libreria avevano preso l'abitudine di chiamarlo, le venne ad aprire e ricevette il dono con grande compostezza.

Nei dieci anni successivi, il libro sarebbe stato ristampato undici volte e introdotto clandestinamente negli Stati Uniti. Sylvia calcolò che potessero esservi fino a sei errori per pagina, e non solo perché i tipografi non sapevano leggere l'inglese, ma perché componevano le pagine a mano. Joyce aveva inoltre una grafia illeggibile, e le aggiunte si incrociavano in ogni spazio libero; senza contare le imprecisioni dell'autore nel ricopiare il proprio testo, gli errori dovuti al tentativo dei tipografi di seguire le frecce a margine della pagina e le correzioni inserite da amici e servizievoli revisori. Quando finalmente arrivò il grosso delle copie, Sylvia passò ore a impacchettarle e a portarle all'ufficio postale, per inviarle ai sottoscrittori di mezzo mondo. Ogni libro pesava più di un chilo e mezzo, annota nella sua autobiografia, riferendosi certo allo sforzo fisico del trasporto, ma con una classica espressione da levatrice. Dieci anni dopo, ancora una volta per il compleanno di Joyce - questa volta il cinquantesimo - la Beach, delusa dai suoi maneggi per estrometterla dalla pubblicazione dell'Ulisse, affidato a un editore americano, gli fece un altro dono: la rinuncia a ogni suo diritto sul libro.

Dopo la morte di Sylvia Beach, avvenuta il 6 ottobre del 1962, il corrispondente da Parigi del Guardian dichiarò: «Se l'Ulisse è diventato il libro che conosciamo, lo dobbiamo in gran parte a lei, perché fu lei a dare a Joyce il diritto di intervenire indefinitamente sulle bozze. Fu nell'esercizio di questo diritto che lo stile di Joyce ha acquisito pienamente il suo carattere».

Sylvia era morta sola, nel suo appartamento, a settantacinque anni, testimone di due guerre mondiali. La crisi economica e l'arrivo dei nazisti a Parigi la avevano costretta a chiudere Shakespeare & Company. Adrienne si era suicidata dopo una lunga malattia. Ma, come disse Archibald Macleish, «lei non è sola, non lo è stata e non lo sarà mai. Era circondata dalla sua Compagnia».

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