IL CAPITALE

La decrescita è già cominciata

POLEMICA
CAVALLARO LUIGI,MONDO

Vorrei tranquillizzare Carla Ravaioli: non solo in Cina ma anche e soprattutto nell'Occidente industrializzato l'età della «decrescita» è già cominciata. Basta confrontare i tassi di crescita dei «trenta gloriosi keynesiani» (1945-75) con quelli del trentennio successivo per accorgersi che i secondi sono pressoché dimezzati. Come ciò sia accaduto è relativamente semplice da spiegare. Dalla fine degli anni Settanta, la progressiva e irresistibile ascesa dei tassi d'interesse reali innescata dalle politiche monetariste dell'allora governatore della Fed, Paul Volcker (verosimilmente impressionato dalla pubblicazione del libro dei Meadows, Limits to Growth), ha modificato la distribuzione del reddito fra capitale e lavoro e, riducendo la quota di prodotto sociale appropriata dai lavoratori (sia sotto forma di salari monetari che di redditi reali conseguiti grazie al welfare state), ha cambiato anche la distribuzione funzionale del reddito tra consumi e risparmi: la quota dei secondi è notevolmente cresciuta rispetto ai primi. Ciò ha provocato una crescente finanziarizzazione dell'economia capitalistica e ha messo capo ad una contrazione della domanda effettiva, che - introiettata dalle «aspettative razionali» degli imprenditori - ha portato questi ultimi a rallentare il ritmo di accumulazione del capitale e ad utilizzare in minor misura gli impianti esistenti (attualmente impiegati soltanto al 70-80 per cento della loro capacità produttiva).

Naturalmente, un simile rallentamento è tutt'altro che sufficiente e bene fa Ravaioli a rimproverare a intervalli regolari il «popolo della sinistra [...] non di rado invischiato fra cascami di ideologismo veteromarxista, superstiti schematismi sviluppisti e assimilazione - inconsapevole forse ma pesante - se non al credo produttivistico e consumistico, certo ai comportamenti che ne derivano» (il manifesto, 9 luglio).

Possiamo tuttavia ben sperare per il futuro. Il consolidarsi di politiche macroeconomiche monetariste (esemplificate dal Patto di stabilità) porterà ad un'ulteriore contrazione dei bilanci pubblici, in primo luogo delle spese sociali per istruzione, sanità e pensioni: pensiamo, ad esempio, quanto potrà favorire la «decrescita» il fatto che i pensionati del futuro si troveranno in tasca un reddito pari a circa il 40 per cento dell'ultima retribuzione e dovranno perciò distogliere dai consumi una parte significativa delle loro già esigue retribuzioni per costruirsi una pensione integrativa.

In secondo luogo, l'approvazione degli accordi di Basilea sulle modalità di concessione del credito alle imprese metterà capo ad un'ulteriore stretta creditizia; i tassi d'interesse saranno mediamente più elevati di adesso e ciò accrescerà l'effetto depressivo sugli investimenti e sull'occupazione, quindi sui consumi.

Insomma, contrariamente a quanto temuto da Carla Ravaioli, il capitalismo ha già fatto sua la strategia della «decrescita». Si può per contro prevedere che qualcosa in contrario avranno lavoratori e pensionati, e forse è proprio per questo che su questo giornale, da sempre attento alle ragioni di questi ultimi, l'invocazione della «decrescita» fa sempre più spesso capolino: sarebbe veramente assurdo se, una volta che le istituzioni capitalistiche hanno abbracciato il credo che ci condurrà verso il migliore dei mondi possibili, l'obiettivo dovesse essere fallito per colpa delle stupide resistenze della classe operaia. O no?



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