VISIONI

Umbria jazz, incursioni pop

ONORI LUIGI,PERUGIA

Il cuore jazzistico di Umbria Jazz non pulsa all'arena Santa Giuliana. Per la precisione nello spazio inaugurato l'anno scorso hanno già suonato Keith Jarrett, i Manhattan Trasfer, la Count Basie Orchestra, D.D.Bridgewater, George Clinton e B.B. King ma anche Giorgia, Milva, Alicia Keys, Michael Bublé e Burt Bacharach. È come se tanti pubblici e idee di jazz si mescolassero nel ribollente melting-pot perugino. È sempre stato così, almeno dagli anni Ottanta, ma nell'edizione 2004 il fenomeno sembra accentuarsi. Da una parte c'è chi ama e conosce la musica afroamericana, il jazz diffuso, quello che si ritrova nelle jam-session degli studenti della Berklee o di giovani jazzmen, negli after-hours di alcuni club, nei film proposti con competenza e passione da Bruce Ricker. O ancora nella programmazione ufficiale al teatro Pavone e Morlacchi, in alcuni appuntamenti nell'arena, come il concerto di chiusura, stasera, con il superquartetto di Wayne Shorter, Herbie Hancock, Dave Holland e Brian Blade. Intorno ruota un pubblico più numeroso attratto dal jazz come glamour, tendenza al limite snobistica che veicola una serie di musiche contigue o irrelate (fino al tango ed al pop) in curioso gemellaggio con quanti seguono solo i concerti gratuiti in piazza.

Alla fine degli anni `Settanta, quando nacque Umbria Jazz, il pubblico giovanile che si riversò nella verde regione del centro Italia lo fece spinto dall'ansia di incontrarsi e condividere passioni politiche e musicali, pur conoscendo poco il jazz e tra mille malintesi ed ingenuità. La rassegna proponeva allora solo jazz, da Count Basie a Sam Rivers, e quanti avevano orecchie impararono ad amare la musica nera; oggi è come se ci fosse una divisione di classe (non sociale) tra chi segue il jazz e chi vuole divertirsi. La stessa rassegna, per mantenere il suo rango, ha ormai bisogno di ospitare artisti pop per avere sui mass-media uno spazio che in precedenza ottenevano i jazzisti. Il fenomeno è complesso e meriterebbe studi e analisi nel panorama di un'Italia che muta. Del resto non è un segreto. Nel programma ufficiale del festival c'è scritto: «Umbria Jazz conferma il nuovo corso: il festival di nicchia convive con generi più popolari».

Ne è esempio esemplare la serata dedicata a Michael Bublé. Il cantante canadese ha fatto accorrere gli amanti del neoswing, della ripresa di uno stile che ha in Frank Sinatra e Tony Bennett i suoi precedenti storici. Con un ottetto professionale, Bublé ha cantato i suoi hit (Moondance di Van Morrison) e si è confrontato con il brio di All of Me e la malinconia di My Funny Valentine, applaudito da un pubblico che ha conosciuto gli standard e le pop-song attraverso Mtv e le riletture di Robbie Williams, oppure che era venuto per l'altro protagonista della serata, il pianista e compositore Burt Bacharach. Più che settantenne, affabile, ricco di sense of humour, Bacharach ha regalato una preziosa carrellata di suoi successi, da Magic Moments a Never Fall in Love Again, dalle canzoni alla musica per il cinema (Butch Cassidy) ed il musical, evocando la tromba di Herb Alpert e la voce di Dionne Warwich. Grande classe, la sua e del suo gruppo (le voci di Josie James, John Pagano e Donna Taylor). Un concerto raffinato, una cavalcata nei decenni del secolo scorso, celebre e cesellata pop music ma assenza totale di jazz, se non per qualche impasto timbrico e brevissimi assoli.

Il cuore jazzistico batteva forte al teatro Morlacchi dove, dopo mezzanotte, la classe pianistica di Hank Jones, il furor sassofonistico di Joe Lovano - con il contrabbasso sapiente di George Mraz e la batteria policroma di Dennis Mackrel - hanno risuonato tra i velluti e gli stucchi, con spettatori stipati fino all'ultimo loggione. Lovano ha da poco pubblicato I'm All for You (Blue Note), un album di ballad, e si avvia ormai a prendere il ruolo di Sonny Rollins: lo evoca per la forza espressiva, la vis improvvisativa, il suo saper essere trascinante e possente sui tempi medi e veloci quanto passionale e romantico in quelli lenti. Un artista oratorio ed esuberante; Jones ha attraversato un cinquantennio di storia del jazz con un pianismo sottile, ritmico ed elegante, lontano dai modalismi alla McCoy Tyner ma evoluzione moderna dello stile di Teddy Wilson.

Blues, brevi accenni al soul , ricreazione di ballad, brani originali hanno scandito un concerto in cui Lovano impersonava il fuoco e Hank Jones l'acqua, il temperamento e l'eleganza, come accadeva nel quintetto di Miles Davis ai tempi di John Coltrane. A quel gruppo ha fatto pensare, senza filologismi, una magnifica Stella by Starlight mentre un'intensa Monk's Mood ha mostrato ai vertici sia l'anziano seppur validissimo pianista sia il saxtenorista, che negli anni Novanta - insieme a Paul Motian e Bill Frisell - seppe dare nuova, ulteriore vita a quella di Thelonious. Umbria Jazz chiude con, tra gli altri, Paolo Fresu, Uri Caine, Enrico Pieranunzi e Nicola Conte.

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