VISIONI

Ya Raï! La voce di Khaled c'è

LORRAI MARCELLO,FIRENZE

Il titolo è Ya Raï, ma si potrebbe ribattezzarlo Chat Raï: Khaled e Don Was, il famoso produttore non nuovo alla collaborazione con il cantante algerino, lo hanno realizzato dialogando via internet fra Los Angeles e Parigi. Ya Raï è anche il brano da cui dovrebbe prendere il titolo il nuovo album: il condizionale è d'obbligo, visto che doveva uscire prima delle apparizioni estive di Khaled, ma la pubblicazione è stata, sembra più di una volta, posticipata. Adesso è prevista in Francia il 31 agosto, a quattro anni di distanza da Kenza, l'ultimo disco internazionale di Khaled. È un divertente e significativo paradosso che sia con un procedimento così lontano dalla patetica arte di arrangiarsi del pop-raï dei tempi che furono che viene messo insieme un brano a cui è affidato un titolo-compito programmatico (Ya Raï! è l'esclamazione che riempiva i vuoti come un «oh yeah!», da cui il nome del genere) che rinvia agli anni ruggenti, all'identità fondante. Perché per quello che è dato capire, il nuovo album di Khaled è destinato a riallacciare stretto il rapporto del cantante col suo pubblico delle origini, quello di provenienza algerina innanzitutto, forse non troppo gratificato dagli ultimi album. Ya Raï a parte, infatti, Khaled ha passato in studio forse più tempo che per gli album precedenti, per un disco molto «suonato» in maniera non virtuale, in cui si è direttamente incaricato di fisarmonica, percussioni, oud. Di brani ne sono stati allestiti in tutto una quindicina, troppi per un cd, e qualcosa resterà fuori. Manca una canzone di grande potenziale commerciale tipo Aicha.

Un impianto che sembrerebbe confermato dall'apertura del tour italiano, dopo alcune date spagnole, mercoledì sera a Firenze. In piazzale Michelangelo, con la cupola del Duomo che emerge sul fondo aperto della scena, non si può dire che Khaled abbia puntato sulle soluzioni più ammiccanti. Certo c'è Didi, e - c'è bisogno di dirlo ? - per il bis è tenuto in serbo Aicha. Ma Khaled si concede anche due brani in cui imbraccia il suo grande vecchio amore, la fisarmonica, e non sono due brani qualsiasi: la prima è Wahrane, cioè «Orano», con il passaggio in cui dice che ormai nella sua città si spara come a Chicago (quella degli anni trenta); la seconda è Wahrane Wahrane, la grande canzone di Ahmed Wahbi, alfiere della canzone oranese a cui il raï deve tanto: cinquant'anni fa, quando non poteva neanche lontanamente immaginare l'Algeria degli sgozzamenti e dell'omicidio sotto casa di Cheb Hasni, Wahbi parlava della decadenza di Orano. Due scelte splendidamente «datate», nel senso che riflettono nel repertorio anni novanta di Khaled quell'Algeria terreno di scorribanda del terrorismo integralista e delle azioni «deviate» dell'esercito, un'Algeria che il cantante non riesce più a riconoscere. È una lunga versione di Wahrane Wahrane, che Khaled canta con pathos e profondità: con il suo andamento solenne, dolente, con i violini (sintetizzati) tipo orchestra moderna egiziana, non è esattamente un brano da discoteca.

Qualcuno lancia sul palco una bandiera palestinese, e la sicurezza diligentemente la porta via: Khaled se la fa ridare e se la mette sulle spalle come un mantello; sul palco arriva anche una bandiera algerina, e Khaled si butta sulle spelle anche quella; poi, come in un piccolo cerimoniale improvvisato, mentre continua a cantare la sua Orano, appende la bandiera palestinese all'asta del microfono, stende la bandiera algerina su un monitor, in bella vista; arriva anche una bandiera arcobaleno della pace, e Khaled la apre con aria soddisfatta. In scaletta anche H Mama, con un piglio da musica leggera araba, che nell'album dovrebbe essere interpretata duettando con l'anziano ebreo-algerino Maurice El Medioni, uno dei grandi della musica judeo-arabe; e appunto Ya Raï, orecchiabile e allegra; e un cavallo di battaglia sbarazzino su tempo reggae come Chebba.

Khaled è in forma: di buon umore, ha perso un po' di chili e sembra ringiovanito, e oltre alla linea soprattutto ha recuperato la voce, che è tornata sciolta e duttile dopo il periodo di sofferenza di qualche anno fa. Non si risparmia, e per quanto riguarda lui tutto funziona molto bene. Caso mai è la musica che stenta un po' a seguirlo. Khaled non cambia i musicisti per il gusto di cambiarli: alcuni dei vecchi erano venuti su dal milieu del raï di una volta come lui, insomma non erano proprio degli stinchi di santo, non proprio irreprensibili. Ma a forza di sostituire, qualcosa della grana della musica si è perso. Il raï c'è nel repertorio, meno nella poesia e nel sound. Philippe Slominsky è un bel professionista, ma quando prende un assolo si sente crudelmente la mancanza di quel suono da corrida, da paso doble, così oranese e così raï, del bravissimo Djaffar Bensetti, un altro da cui Khaled ha dovuto separarsi. È sempre grande Khaled, e fa tenerezza, forse perché anche con tanti musicisti intorno sembra un po' solo.

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