VISIONI

Se il jazz vola da padre in figlio

LORRAI MARCELLO,FANO

Un po' come un David Murray, di cui è più giovane di una quindicina d'anni, James Carter, una delle stelle del jazz degli anni `90, è uno di quei sassofonisti cresciuti musicalmente quando nel jazz tutte le rivoluzioni possibili si erano compiute, che nel momento in cui cominciano a soffiare nello strumento sono capaci di proiettarti immediatamente in una fortissima dimensione di «jazz», nel senso più corposo, vitale, neroamericano e storico e non «post» del termine: originario di Detroit, il trentacinquenne musicista mostra un'invidiabile padronanza della tecnica, un'inclinazione espressionista e una punta di maschile esibizionismo un po' rhythm'n'blues. Purtroppo, «post» in effetti Carter lo è, e non sempre è capace di governare le proprie scelte musicali con la stessa destrezza con cui improvvisa. Si guarda molto indietro e non solo come ispirazione per andare avanti: appena entra in scena il trombettista Dwight Adams, la musica scivola in un passatismo e un manierismo neanche troppo curati. Tutt'altra storia quando poi nella bella cornice della Corte Malatestiana che ospita alcuni degli appuntamenti di Jazz By The Sea tocca a Jackie McLean (vincitore del premio della critica Heineken a Umbria Jazz), più del doppio delle primavere di Carter, e un figlio accanto, René, anch'egli sassofonista (vive in Sudafrica), messo al mondo quando aveva quindici anni e dunque cinquantottenne: l'organico è praticamente lo stesso, due fiati, piano, basso e batteria, ma è usato a dimostrazione del fatto che la giovinezza non è un fatto anagrafico. La batteria apre il brano di avvio, Rhythm of the Earth, firmato dal leader, con un piglio alquanto nevrastenico, il basso elettrico è slapping, metallico, funky, il piano suona scarno, allucinato, e McLean con il suo magnifico timbro un po' nasale ma che riempie l'aria e il figlio creano degli insiemi acidi e sghembi. Il ritmo è schizzato, il sound del gruppo ha qualcosa di elettrico, l'atmosfera stralunata fa venire in mente la tensione tossica di The Connection con i musicisti in spasmodica attesa del pusher (una situazione che McLean conosceva di prima mano) del `59, ma con un feeling modernissimo. Poi il clima si distende nell'ariosità di Dance Little Mandisa, firmata da René, col pianoforte che ricorda il McCoy Tyner di My Favorite Things. Pochi brani, però magnetici. Che bastano a mettere in risalto l'integrità, in più di un senso, di McLean dopo oltre mezzo secolo di carriera. Un improvvisatore che cattura ancora, sia nei brani più veloci che nella ballad. Non un nome che spende la fama accumulata con un banale accompagnamento ma un musicista con, inalterati, il gusto e la cura per un alto livello di musica di insieme. Un leader capace di circondarsi di partner di valore: Alan Palmer, sobrio e efficace al piano, Nat Reeves, che passa disinvoltamente anche al contrabbasso, Eric McPherson alla batteria, musicisti non nuovi negli ultimi dieci anni accanto a McLean anche su disco. Figlio del sassofonista Charlie McPherson, che fu con Mingus, quando si ritaglia uno spazio per sé Eric McPherson evita i luoghi comuni del solo di batteria a favore di un drumming molto «africano» ma forte del suo essere originale, africano della diaspora. Eccellente l'intesa nel dialogo e nel suono fra padre e figlio, quest'ultimo tutt'altro che disprezzabile anche come flautista. E dopo un omaggio a Monk con Round Midnight, chiusura con uno straordinario, bruciante Cyclical, firmato dal pianista Hotep Idris Galeta, uno dei brani più di impatto e rappresentativi del repertorio di McLean degli ultimi lustri. Carter ci ha raccontato la favola del «c'era una volta il jazz», McLean ci ha ricordato che il jazz è adesso.

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