SPECIALE

America primo amore

CASTELLINA LUCIANA,USA

In tutti gli incontri ufficiali che nel corso della mia lunga vita di parlamentare ho avuto con queste o quelle autorità americane, mi sono sempre divertita a dire che quando si lamentavano del comunismo italiano dovevano tener conto che le sue radici erano più a Hollywood che a Mosca. Era un paradosso un po' tirato, ma non privo di fondamento. Anche per via dell'isolamento politico cui erano state costrette dal fascismo, i legami con l'Unione sovietica delle generazioni maturate negli anni `30 furono ben scarsi e forte, invece, fu l'influenza su di loro della cultura americana, veicolata fra mille ostacoli in particolare attraverso la famosa antologia curata per Einaudi da Elio Vittorini, L'Americana, una pietra miliare nella formazione di quegli anni. Ad un ben più circoscritto numero di giovani questa cultura arrivò anche attraverso la più coinvolgente e diretta via del cinema. Si trattava del gruppo che studiava al Centro sperimentale di cinematografia dove - per via della presenza di un cinefilo tedesco ebreo sfuggito alle prime leggi razziali della Germania e, per i casi del destino, finito insegnante nella famosa scuola di Cinecittà prima che le persecuzioni arrivassero anche in Itala - ebbe il privilegio di vedere i grandi film dell'epoca del New Deal che a tutti gli altri erano proibiti. L'effetto che quei film esercitarono ebbe rilevanza politica particolare, perché fra quei giovani c'erano non pochi che in seguito diventarono dirigenti di primo piano del Pci: quando, nell'immediato dopoguerra, Togliatti ebbe l'intelligenza di sostituire con la giovanissima leva la vecchia dirigenza del partito che il ventennio lo aveva drammaticamente trascorso in galera o in Unione sovietica. Racconta Ingrao - che fu uno di loro - che antifascisti diventarono per via di quelle pellicole e di quelle letture. La cultura antifascista italiana era sembrata loro élitaria e dunque lontana, quella democratica americana popolare e vicina, direttamente impegnata nello scontro sociale. Ed è su questo originario arruolamento - che pure non ignorava l'amara descrizione della realtà del paese che film e romanzi tracciavano - che dopo si innestò l'adesione al comunismo.

Il «mito», anzi «il sogno americano» - la simpatia per il paese dalle infinite potenzialità, privo delle incrostazioni castali e dei retaggi reazionari dell'Europa, il luogo dove «si può ricominciare» - come aveva scritto Mario Soldati in America primo amore - è stato fortissimo, anche e forse sopratutto a sinistra.

«Per me tramontò di colpo - ebbe a scrivere in un suo libretto di mezzo secolo fa il regista Sergio Sollima - quando mi capitò sottomano la foto di un marine sorridente che aveva appena disegnato il ritratto di Rita Hayworth sulla fusoliera di un missile a carica atomica». Era cominciata la guerra fredda, il riarmo nucleare, la persecuzione mccarthista e tutto il resto che sappiamo; e l'America cambiò collocazione nel nostro immaginario. Il manifesto con l'immagine dello sfilatino di pane, mezzo indicato come regalo dell'America, cavallo di battaglia della Democrazia cristiana nel `48 all'apice della campagna anticomunista, seppellì l'amore.

Negli anni successivi accogliemmo con grandi manifestazioni di protesta i leaders americani che si azzardavano a venire a Roma: «Ikke, Ikke, vattene per cicche» fu lo slogan che salutò con disprezzo e ironia il presiedente Dewight (Ike ) Eisenhower , che pure, come capo della 5ý Armata, aveva partecipato alla liberazione dell'Italia. E il comandante in capo dell'esercito statunitense che lo seguì, Ridgway, fu per sempre battezzato «generale peste», per via dell' uso di armi battereologiche di cui era sospettato. C'era la guerra di Corea,e un pesante riarmo atomico unilaterale. Non era solo per fedeltà all'Unione sovietica che scendevamo in strada; era perché davvero in qui primi anni `50 il pericolo di un nuovo conflitto mondiale fu reale. Bruno Pontecorvo, Fuchs e altri fisici passarono la cortina di ferro nel timore che il possesso della bomba da parte di quella che era allora la sola grane potenza in campo potesse precipitare la catastrofe.

Dopo la lunga pausa di «coesistenza pacifica» - su cui a ogni buon conto vigilava il Pci anche contro nostre giovanili intemperanze animate dalla preoccupazione, per nulla infondata, che lo statu quo sacrificasse i popoli in lotta per la loro liberazione - le manifestazioni contro i presidenti americani ricominciarono: per via della sacrosante e mondiale protesta contro la guerra al Vietnam. Contro Nixon, nel `69, furono occupate facoltà, ci furono centinaia di arresti e in un assalto combinato di polizia e fascisti mori persino un ragazzo. La Garbatella, nel settembre del `70, diventò un campo di battaglia per due giorni interi perché nella vicina Eur si teneva la riunione della Nato: barricate e poi fughe lungo le stradine, aiutati a nasconderci da una base del Pci che fremeva perche l' ordine di partito era di non partecipare alla protesta.

Attaccammo anche Johnosn, demorcratico e non repubblicano come Nixon, senza fare molte distinzioni. Solo molto più tardi scoprii che Johnson era stato l'artefice della «grande società», il solo serio tentativo, dopo Roosevelt, di introdurre il welfare negli Stati uniti. Ma quanto stava accadendo nella penisola indocinese prevaleva e travolse rapidamente anche il breve rilancio del mito su cui Kennedy si era cimentato all'iizio degli anni `60 con la «nuova frontiera»; ed era giusto che fosse così. Era tanta parte degli stessi americani che con quella guerra scoprivano la pochezza della loro presunta superiorità. Da noi il mito americano tramontò assieme a quello sovietico e quanto di manicheo c'era certo stato nella sinistra, almeno in Italia, si attenuò con la duplice presa di distanza.

L'America non scomparve dai nostri cuori, tuttavia. Non solo per via di quella che viene chiamata «l'altra America» - quella cioè dell'opposizione, dei diritti civili, del pacifismo - ma anche di quella, se non main stream certo non minoritaria, della sua musica, del suo cinema, del suo dinamismo che abbatte e reinventa di continuo mode, culture, tecnologie,convinzioni scientifiche, successi. Il problema è che oggi quest'America pare esserci sempre di meno, Bush non è - come sappiamo - un isolato fungo cattivo. Emerge dal paese un bigottismo e assieme un'arroganza autoreferenziale che ha contagiato persino l'America democratica, lambito addirittura una parte dei nostri amici.

Venerdì non scendiamo in piazza per manifestare contro di loro, ovviamente, ma solo contro Bush e i suoi diretti compari. E però credo che una volta per tutte dobbiamo toglierci di dosso il complesso dell'antiamericanismo che è finito per crescerci dentro per via della campagna condotta da chi vuole obbedienza alla Casa Bianca e però anche - e forse soprattutto - per via degli opportunismi di un pezzo di sinistra che crede di poter esser così assolta dal peccato di ex comunismo. E' ridicolo ascoltare Fini o Scajola sentenziare sull'antiamericanismo, ma è penoso - tanto per fare un esempio - leggere articoli come quello scritto sul Corriere della sera l'altro giorno da Marta Dassù, un tempo direttrice del Cespi e ex consigliera a Palazzo Chigi di Massimo D'Alema.

Dobbiamo trovare il coraggio di dire, laicamente, che la nostra critica investe oggi non solo il governo ma i profondi processi degenerativi che hanno investito la società americana. Il problema, casomai, non è limitare la nostra critica, ma sforzarci di moltiplicare i rapporti con tutti i possibili interlocutori americani. Un consiglio, sia chiaro, che va innanzitutto dato ai neofiti apologeti degli Stati uniti, che di quel paese sembrano non conoscere che le anticamere del potere. Ma vale per tutta la sinistra italiana: i canali di comunicazione con quel che c'è lì di sinistra ( in senso latissimo) sono scarsi e casuali. Loro non sanno niente dell'Europa, ma noi quasi niente di loro. E' stato così pure in passato, quando le esplorazioni si limitavano in genere a paesi del socialismo detto reale. Fu così, certo, anche perché mancavano referenti omologhi ai nostri partiti. Ma persino delle straordinarie lotte condotte dai comunisti americani nell'immediato dopoguerra abbiamo saputo pochissimo: qualcosa dei registi e degli sceneggiatori di Hollywood sottoposti al famoso processo maccartista, ma nulla dei non pochi militanti costretti ad operare in clandestinità negli stati del sud dove lottavano contro la segregazione razzista o in California accanto ai braccianti hispanici. Poco dell'epopea operaia. Bisognerebbe far circolare di nuovo il bellissimo film - «Reds»"- che Warren Beatty gli dedicò anni fa.

Moltiplicare questi rapporti è necessario non per promuovere qualche convegno transatlantico in più, ma perché far uscire l'America dal mito - positivo e negativo - è indispensabile: bisogna ben capire, se si crede possibile creare un diverso mondo, come è stato possibile che nella più grande democrazia del pianeta, nel paese guida dell'Occidente,si sia prodotta una società che ha generato, o avallato, la barbarie della politica di Bush. E bisogna ben scovare, per dialogare, gli anticorpi.



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