Cosa ha a che fare Glückel von Hameln, matriarca ashkenazita vissuta ad Amburgo tra il `600 e il `700, con Susan Bach, fondatrice di un'agenzia letteraria in Brasile? E quale legame esiste fra Bertha Pappenheim, la Anna O. passata alla storia della psicoanalisi per essere stata il primo dei casi clinici di Freud e Breuer, e la giovane scrittrice canadese Anne Michaels? Leggendo Oltre la persecuzione. Donne, ebraismo, Memoria (a cura di Roberta Ascarelli, Carocci editore, pp. 196, 16,80) sesto quaderno della collana dedicata agli studi sulle donne e alle relazioni di genere dell'università degli studi di Siena, si ha l'impressione di trovarsi davanti a una galleria di ritratti, a una complessa genealogia femminile la cui apparente disomogeneità si trasforma nella ricchezza di un racconto che non può essere fatto - né accolto - che per frammenti. Un racconto che ci restituisce il patimento e la forza di donne segnate dalla duplice appartenenza alla cultura ebraica e a quella tedesca, lacerata dalla follia nazista della razza. Raccolta di testi di studiose e ricercatrici italiane e straniere, Oltre la persecuzione è più di un volume collettaneo; è piuttosto un singolare convivio dove ogni autrice presenta altre donne, rendendole presenti in quell'oltre indicato suggestivamente dal titolo, leggibile su più piani: come orizzonte storico che include il prima e il dopo della persecuzione e dell'esilio, ma anche come superamento, signoria. Un moltiplicarsi di voci in cui ogni racconto si lega al successivo con la forza dirompente dell'autobiografia e della testimonianza, allargando - attraverso storie di vita, riflessioni, poesie, lettere, narrazioni, interviste e appunti - l'ambito di riflessione sullo sterminio. Non solo perché «marginalità, persecuzione, annientamento e rifondazione della propria vita dopo una catastrofe sono temi che magnetizzano inevitabilmente la riflessione identitaria» come dicono Roberta Ascarelli e Patrizia Gabrielli nella presentazione, «ma anche perché chi qui analizza questi eventi ha una visuale sul mondo qualificata dalla "differenza", una doppia differenza, come donna e come ebrea».
Voci di sommerse e di salvate, di esuli e di figlie della Shoah, sottratte al ruolo anonimo e spettralmente uniforme di vittime e restituite alla complessità delle proprie esistenze, all'intreccio di intelligenze, sensibilità, lingue, impegno sociale e politico che hanno costituito la ricchezza dell'universo ebraico.
Molti sono i fili che si possono seguire, nella lettura; tra questi, un doloroso, struggente legame con la cultura e la lingua tedesca, il senso della memoria, la difficile collocazione tra appartenenza ebraica e assimilazione, l'incredulità per il tradimento della «patria» tedesca.
In Margarete Susman, Un destino ebraico-tedesco, Claudia Sonino punta l'attenzione sull'autobiografia che la scrittrice, esule a Zurigo dal 1933, l'anno della presa del potere di Hitler, detta, ormai novantenne e cieca, a un amico. Ispiratrice e amica di personaggi come Martin Buber, Franz Rosenzweig e Georg Simmel, tanto lontana dall'ortodossia ebraica quanto dalla cultura dell'assimilazione, Margarete Susman è la «testimone cieca» a cui Paul Celan dedica splendidi versi che ne fanno una figura del destino ebraico. «Eravamo tedeschi» scrive «altrimenti tutto quello che sarebbe venuto in seguito non sarebbe stato così terribile, così annichilente. Parlavamo la nostra amata lingua tedesca, lingua madre nel senso più vero del termine, nella quale avevamo ricevuto tutte le parole e tutti i valori della vita, e certo la lingua è addirittura quasi più del sangue. Non conoscevamo altra patria che quella tedesca e l'amavamo di quell'amor patrio che in seguito si rivelò tanto fatale».
In Jeanne Hersch. Il dibattito su Heidegger e la posta in gioco, Roberta De Monticelli rende paradigmatica la figura della filosofa che, insieme a Hannah Arendt, fu allieva di Karl Jaspers. Ventitreenne ebrea di origini polacche ma di nazionalità svizzera, nella primavera del `33 si recò a Friburgo per ascoltare i corsi di Martin Heidegger, appena nominato primo rettore del nuovo regime hitleriano. Più di cinquant'anni dopo, ricorderà (in un articolo tradotto parzialmente nel Quaderno) una folla di studenti accalcati davanti allo scalone dell'università, e un uomo di piccola statura, in piedi fra il busto di Aristotele e quello di Omero, con il braccio teso nel saluto nazista. Un uomo il cui pensiero era radicato nel disprezzo, nel rifiuto «della condizione umana tutta intera, della sua natura "mista" tra finitudine e infinito, con i suoi sforzi senza fine, modesti, storicamente situati nel tempo e nella storia, verso e malgrado la morte».
Il saggio di Katrin Tenenbaum Dopo il diluvio. Hannah Arendt e la Germania attraverso la corrispondenza con Karl Jaspers è invece imperniato sull'esilio parallelo dei due filosofi, entrambi tedeschi di lingua ed educazione, entrambi segnati dalla scelta radicale che esclude il rientro in Germania. Unico «ritorno» possibile, per Arendt, è il riconoscersi e il permanere nella lingua.
Ancora la parola è al centro del saggio di Nadia Neri, La scrittura in Etty Hillesum tra ricerca artistica e ansia di memoria. «Qui si potrebbero scrivere delle favole» riflette Etty Hillesum nel suo diario del campo di transito di Westerbork da cui, nel settembre `43, viene deportata ad Auschwitz per morirvi due mesi più tardi. «Sembra strano, ma se si volesse dare un'idea della vita a Westerbork, quella sarebbe la forma migliore. La miseria che c'è qui ha passato a tal punto i limiti della realtà da diventare irreale».
In Dalla testimonianza alla letteratura. Memorie tedesche della Shoah negli anni ottanta, Rita Calabrese confronta le autobiografie di Cordelia Edvardson, Ruth Elias e Ruth Klüger. Per le tre scrittrici, sopravvissute a Theresienstadt e Auschwitz, il rapporto con il tedesco - amata lingua materna divenuta odiata lingua dei carnefici - è complesso e contraddittorio. Se nel campo, da un lato, sono state le parole in yiddish del soldato liberatore a segnare i termini di una comune appartenenza, contrapposte al lessico concentrazionario, d'altro lato per le prigioniere il tedesco è stato la lingua della socializzazione, la più efficace arma di resistenza.
Il sottrarsi delle parole con cui narrare l'inenarrabile torna come un rovello in Le frontiere della lingua. Memorie ebraiche fra Polonia e Israele. Per molti sopravvissuti il polacco suona tuttora come una delle lingue dello sterminio; una lingua che per decenni i reduci non hanno insegnato ai figli, tenendola nascosta come una vergogna e una ferita. Tuttavia, dice la scrittrice Irit Amiel, è necessario creare ponti, «e nessuno può farlo in maniera più efficace degli scrittori, delle persone che conoscono le parole. Perché tutto ha inizio dalle parole».
Anche la scrittrice canadese figlia di esuli ebrei polacchi presentata da Caterina Ricciardi in Memorie: il Kaddish di Anne Michaels si interroga sulle parole della trasmissione del ricordo; lo fa immaginando un doppio diario in cui memoria dei testimoni e memoria di quelli che sono venuti dopo si intrecciano a formare un Kaddish, una preghiera dei morti. «Se il tempo è assassino e ingannevole, una "guida cieca", e la storia è amorale, la memoria invece è morale» dice Anne Michaels; «ciò che ricordiamo consapevolmente è quello che ricorda la nostra coscienza. La storia è il Totenbuch, il libro dei morti, tenuto dagli amministratori dei campi. La memoria sono i Memorbücher, i nomi di quelli che bisogna piangere, letti a voce alta nella sinagoga».