CULTURA

I buoni affari delle guerre sporche

ALTRI MONDI
ARCHIBUGI DANIELE,USA/EUROPA

Due parole sono state espulse dal vocabolario della politica internazionale. La prima è «avversario», la seconda è «nemico». Entrambe sono state rimpiazzate con un'altra parola: «terrorista». Non è un cambiamento semantico di poco conto: dimostra che oggi il mondo occidentale è predisposto a demonizzare l'avversario e a togliergli ogni legittimità politica. L'Occidente ha vinto, e piuttosto di iniziare a vivere senza nemici, continua a ricercare e a provocare conflitti tra civiltà, dove i nuovi nemici sono militarmente debolissimi (è incomparabile la minaccia rappresentata da bin Laden a confronto di quella dei missili atomici sovietici), e proprio perciò, devono indossare maschere mostruose per diventare credibili. Dopo l'11 settembre, quando per la prima volta il mondo occidentale ha dovuto fare i conti con una inedita vulnerabilità, il fenomeno terrorista ha sviluppato sempre maggiori ansie di massa. Ma anche nel regno dell'angoscia, la differenza tra opinione pubblica negli Stati Uniti e in Europa si sta allargando, come dimostrato dai sondaggi riportati in un recente volume di Fabrizio Battistelli (Gli italiani e la guerra. Tra senso di insicurezza e terrorismo internazionale, Carocci, pp. 189, € 18,50). Negli Stati Uniti, il 91 per cento della popolazione percepisce come minaccia il terrorismo internazionale, e l'86 per cento le armi di distruzione di massa, mentre in Europa tali timori scendono, rispettivamente, al 65 e al 58 per cento.

Pesci nell'acquario

Questi dati non si spiegherebbero senza la spettacolarità degli atti dell'11 settembre. Ma proprio perché il terrorismo è diventata l'ansia principale dell'opinione pubblica occidentale, si rendono necessarie analisi accurate e razionali che cerchino di spiegare il fenomeno e individuare le motivazioni dei vari gruppi. Sotto il termine «terrorismo» si trovano accomunate organizzazioni assai diverse, ciascuna con un proprio profilo. Molti gruppi ricorrono ad atti terroristici contro uno stato specifico che si oppone alle rivendicazioni autonomistiche: l'Ira, l'Eta, i Tamil, i gruppi ceceni, tanto per citarne alcuni, limitano la violenza alla Gran Bretagna, alla Spagna, a Sri Lanka e alla Russia. Altri gruppi, tra i quali spicca l'organizzazione terroristica per eccellenza, al-Qaeda, si dirigono contro obiettivi assai più vasti (chi l'occidente, chi gli infedeli, chi il capitalismo). Nel primo caso, il terrorismo è un fenomeno interno che sfida lo stato depositario del weberiano monopolio sull'uso legittimo della violenza, nel secondo caso è essenzialmente esterno.

Ci sono gruppi terroristici che vivono in un isolamento quasi totale, altri sono invece ben integrati in un tessuto sociale che fornisce protezione, reclute e sostegno. Se le Brigate Rosse erano un gruppo «esterno» alla realtà sociale, Hamas è invece assai «interna» alle dinamiche sociali nei territori occupati. In libere elezioni, le Brigate Rosse avrebbero forse raccolto meno dello 0,1 per cento dei voti, Hamas potrebbe aspirare a diventare il partito di maggioranza relativa nella striscia di Gaza.

Ci sono infine gruppi terroristici che limitano gli obiettivi dei propri attacchi, altri che compiono devastazioni indiscriminate. Sulla base di questo semplice fatto si poteva prevedere, senza dover attendere una rivendicazione, che la strage della Stazione di Atocha dello scorso 11 marzo non era opera dell'Eta e che era invece perpetuata da un gruppo terroristico extra-territoriale.

Comprendere la natura e la diversità esistente tra le varie organizzazioni è condizione essenziale non solo sotto il profilo analitico, ma anche per individuare la strategia da perseguire. In alcuni casi, la migliore strategia per combattere i terroristi è trattarli come criminalità organizzata: è quanto accaduto nel caso italiano contro le Brigate Rosse. In altri casi, è più efficace dare rappresentanza politica alle istanze difese dai terroristi, creando canali istituzionali che rimpiazzano la violenza organizzata. Nella questione irlandese, il riconoscimento politico delle rivendicazioni dei cattolici del Nord, avvenuta con gli accordi del Good Frida, hanno avuto un parziale successo nell'ottenere il disarmo e nel ridurre la violenza incontrollata.

Una delle chiavi di volta per capire quale sia la componente «criminalità organizzata» e quale sia il «radicamento sociale» è fornito dalla sfera economica. I terroristi hanno anche loro bisogno di soldi e lì dove non si possono rintracciare le armi o gli individui, è forse possibile controllare il carburante finanziario.

Di che vive dunque un'organizzazione terroristica? In che misura si fonda su estorsioni (come succede con i gruppi mafiosi) o su contributi volontari? Quali sono i canali di finanziamento? A questi temi dovrebbe essere dedicato il volume di Loretta Napoleoni, La nuova economia del terrorismo (Marco Tropea, pp. 382, € 19). Ma la lettura del volume lascia del tutto insoddisfatti perché un tema così rilevante è trattato in modo superficiale e sconclusionato. Mi limito a tre rilievi: la stima macro-economica sull'economia del terrore, l'impianto analitico e la ricerca empirica.

In primo luogo, l'autrice sostiene che ben il 5 per cento del valore della produzione mondiale è il valore dei capitali a cui possono far riferimento organizzazioni eversive. A parte il fatto di mettere in rapporto un flusso con uno stock, la cifra è da capogiro, ma non per questo qualificata da una seria analisi. Rischia di essere un numero che rimbalza da una parte all'altra e che alla fine, solo grazie alla forza della seduzione e della ripetizione, e proprio perché non falsificabile, sarà pure preso per buono.

In secondo luogo, nel volume manca una categorizzazione del terrorismo, anche per quanto riguarda la questione dei finanziamenti. Sarebbe invece stato assai utile distinguere i gruppi in base alle fonti di finanziamento perché ciò consentirebbe di capire il loro radicamento sociale. In alcuni casi, i proventi vengono dal proprio «collegio»: il fatto che l'Eta si finanzi tramite «l'imposizione di tasse» sulle attività produttive, ad esempio, rende l'organizzazione più radicata ma, allo stesso più vulnerabile nei confronti della disapprovazione sociale. Organizzazioni che trovano il proprio sostentamento nei contributi volontari della diaspora, come è accaduto per le forze separatiste nel Kosovo, in Cecenia e nel Kurdistan, rende le attività criminali di tipo fondamentalmente diverso, fino al punto che le azioni terroristiche diventano il fattore che giustifica la richiesta di contributi all'esterno. L'esistenza di patrimoni associati alle materie prime, in primo luogo il petrolio, modifica ancora una volta la natura del fenomeno.

Stati d'eccezione

In terzo luogo, il volume è del tutto sprovvisto di una ricerca originale. Le fonti utilizzate dal volume sono essenzialmente le notizie di stampa, con alcune e poco qualificate interviste a protagonisti. Si dirà che non è facile trovare informazioni su un fenomeno clandestino, ma molti studiosi sono riusciti a produrre indagini sul campo relative alla mafia italiana e a quella russa, sulla criminalità organizzata cinese e su quella giapponese. Sarebbe stato interessante avere notizie un po' più specifiche su almeno alcuni gruppi che operano anche alla luce del sole, quali ad esempio Hamas e gli Hezbollah. In che misura riescono a finanziarsi tramite contributi volontari dalla popolazione, a estorsioni sulle attività produttive o a fonti provenienti dall'esterno, siano essi i canali della diaspora, stati amici o magnati condiscendenti?

Infine, lascia del tutto perplessa la tesi secondo la quale il terrorismo va combattuto «dando la caccia ai terroristi» piuttosto che con gli strumenti adottati per la criminalità. L'autrice si schiera decisamente a favore dell'amministrazione Bush e contro quella Clinton (responsabile, a suo giudizio, di aver usato la strategia sbagliata contro il terrorismo a seguito del primo attentato alle Torri gemelle nel 1993). E' una prospettiva contraria a quanto sostenuto da un movimento forse minoritario ma consistente negli stessi Stati Uniti, e che intende togliere le basi sociali al terrorismo promuovendo lo sviluppo economico e reprimendo individualmente i responsabili di crimini piuttosto che tramite esecuzioni extra-giudiziarie o tramite la guerra preventiva (si veda, ad esempio, il volume curato da James P. Sterba, Terrorism and International Justice, Oxford University Press, New York, 2003).

L'Europa ha dovuto fare i conti con un terrorismo assai più insidioso di quello che ha minacciato gli Stati Uniti. In Italia e in Germania, in Gran Bretagna e in Spagna, il terrorismo interno è stato un fenomeno che ha dominato per anni il clima politico. I paesi europei sono spesso riusciti a tener testa al problema preservando la propria civiltà giuridica. Quando gli stati sono venuti meno ai propri principi, come nella «guerra sporca» combattuta contro l'Eta o impiegando l'esercito nell'Irlanda del Nord, il terrorismo, e il suo consenso sociale, è aumentato. Nonostante le differenze riscontrate, i casi europei dimostrano che il terrorismo è stato sconfitto quando i governi sono rimasti fedeli allo stato di diritto. Non sarebbe poco trasmettere questa semplice lezione anche al di là dell'Oceano.



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