Luigi Pintor lo chiamava «gelido coglione». Immagino che adesso avrebbe ritenuto eccessivamente affettuosa la definizione. «Criminale di guerra» è certo pesante per un ministro del paese guida dell'Occidente, e però non vedo alternativa adeguata. Questo è del resto il suggerimento venuto da Amnesty International, che non è un tribunale rivoluzionario. E' naturale dopo aver ascoltato in diretta quanto Rumsfeld ha detto - lui e i suoi generali, carichi di decorazioni come quelli della vecchia Unione sovietica - ad una annichilita commissione del Senato americano. Dopo quanto è emerso in quella sede ripetere, imperturbabile, che la vicenda delle torture perpetrate in Iraq da militari sotto bandiera a stelle e a strisce si riduce a un increscioso incidente, per il quale è pronto il rimborso spese riparatorio, è francamente acrobatico.
Perché viene fuori che questi trattamenti che hanno prodotto decine di omicidi, non erano l'esclusiva della ormai nota prigione di Abu Ghraib a Baghdad, ma metodi di interrogazione già usati anche altrove: a Guantanamo, in Afghanistan e chissà dove altro. E che di tali pratiche l'esercito era ben consapevole visto che almeno dal 2002 erano in corso inchieste che avevano già appurato i fatti e che non si capisce a chi siano state trasmesse. A pochi, ha suggerito qualcuno, per non turbare le truppe.
Difficile scaricare tutto sulla sadica soldatessa Lynndie - che compare spesso nelle foto, anche sottobraccio al suo caporal-fidanzato, ambedue assai divertiti dal gioco di tenere al guinzaglio come cani feroci giovani iracheni nudi. Di Lynndie, della mamma, del suo tranquillo villaggio nella West Virginia che con le sue foto di eroina al fronte aveva tappezzato i muri (ora rimosse in fretta), si mostrano ora le immagini. «Indisciplinata», la giudica il suo comandante in capo.
E i loro superiori, dai primi gradi su su fino a quelli più elevati, che da più di un anno ricevevano rapporti sulle «anomalie» in atto? Impassibili si sono rifiutati di rispondere, passandosi la palla l'uno con l'altro, alle due domande centrali che pieni di titubante vergogna gli hanno rivolto i senatori di ambo i partiti: quali erano le regole stabilite per gli interrogatori dei prigionieri, vale a dire in che misura quanto è accaduto era parte di un processo organizzato e cosciente? Chi sapeva, chi ha avallato, controllato o tollerato?
Ne è risultato soltanto che la Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra non si applica ai criminali e che chi è criminale e chi no, non è facile da stabilire quando si ha a che fare con 42.000 arrestati solo in Iraq, di cui, grazie alla buona selezione effettuata, se ne sono già liberati 8.000.
Vorrei tuttavia avanzare qualche «scusante» per Donald Rumsfeld e i suoi: 1) francamente assai peggio mi appaiono gli alleati, fra cui anche l'Italia come sapete. La sola domanda alla quale il generale Myers interrogato ha risposto con qualche sicurezza è stata quella in merito alle reazioni degli altri membri della coalizione: tutti tranquilli, ha detto, riferendo di una riunione della Nato che aveva appena avuto luogo. Dico peggio perché sarebbero stati più liberi di parlare, meno coinvolti; 2) colpevoli non sono solo loro. Né si tratta solo della speciale barbarie americana. In Somalia responsabili di analoghe atrocità furono anche militari italiani. E' la guerra ad essere responsabile. Perché la guerra produce imbarbarimento. Ed è anche per questo che non va fatta. In nessun caso, fosse per la più nobile delle cause.
Già sento il ritornello assolutorio: «Ma l'America è un gran paese perché si denunciano le colpe grazie alla democrazia e alla libera stampa». E' vero. In Francia perché venissero alla luce le torture inflitte in Algeria ci sono voluti decenni. Quando il povero Henri Alleg denunciò quanto accadeva ne «La question» non fu creduto nemmeno dal suo partito, il Pcf. Ma è passato mezzo secolo e si vorrebbe poter pensare non invano. Ci mancherebbe altro che il più grande paese dell'Occidente avesse le stesse regole del regime di Saddam! E però se il denunciare i crimini non serve ad eliminarne le cause, che stanno soprattutto nella orrenda demonizzazione dell'avversario che è stata portata avanti con tutti i mezzi, ivi compresi quelli che ora ne denunciano i guasti, la grande democrazia americana non basterà a salvare la reputazione del paese. I senatori democratici erano contriti come i repubblicani. Sul volto di nessuno di loro si poteva leggere la soddisfazione per l'uso elettorale che dell'accaduto si potrà fare. La patria, l'onore degli Stati uniti hanno prevalso. E' logico e persino onorevole. Ma non fino al punto di rinunciare a una denuncia radicale della guerra e della politica perseguita da Bush.