STORIE

Grigore, che non voleva volare

DEPORTAZIONI
SOSSI FEDERICA,ITALIA/ROMANIA

Si chiama Grigore e ha paura di volare. La notizia arriva ci così, in un normale pomeriggio d'ascolto, un giorno di marzo. Non è una grande notizia. Di lui, all'inizio, sappiamo ancora qualcosa - il suo numero di cellulare, e che è rumeno. Poi, verso sera, Ilaria lo chiama, e si aggiungono altri pochi elementi: «esce dal carcere di La Spezia, la polizia lo accompagna all'aeroporto, ma lui chiede se può tornare in Romania non con l'aereo, perché dice di avere paura a causa della perdita di suo zio in un incidente aereo. Si 'graffia' con una lametta, lo portano all'ospedale, esce dall'ospedale e viene portato a Milano, al Cpt di via Corelli (18 febbraio 2004). Nel Centro parla con lo psicologo (mattina del 19 febbraio) e con il medico, che gli consigliano di prendere delle medicine, lui rifiuta. Adesso ha paura, dice cha da qualche giorno (da sabato 28 febbraio) dei poliziotti e dei 'civili' prendono le persone, le legano, gli mettono lo scotch alla bocca e li portano via. Grigore vuole tornare in Romania, ma chiede soltanto di non farlo con l'aereo». E' questa la mail che ci manda Ilaria, la sera, a cui aggiunge il numero del cellulare di Grigore, il nome e il numero di telefono del suo avvocato di La Spezia. L'osservatorio sul Centro di detenzione di via Corelli era cominciato da poco, da due settimane circa, e dopo i primi giorni - successivi alla nostra visita durante la quale avevamo affisso sui muri delle camerate i numeri di telefono dei nostri sportelli - un vuoto, il puro silenzio. Ore passate nelle sedi delle associazioni che avevano aderito all'osservatorio ad aspettare qualche parola, e altre ore di riunioni a chiederci come mai nulla arrivasse da quel luogo istituito nel silenzio; e a discutere anche, a volte con toni accesi, su quali parole del «dentro» comunicare a tutti noi. Le nostre infinite parole per decidere che cosa fosse parola, notizia, informazione, «dato significativo» - e il silenzio del Centro.

Cos'è «informazione»?

E' parola che tutti devono conoscere, informazione dunque, anche una parola sulla noia, sul tempo impossibile da trascorrere lì dentro, e addirittura il silenzio, il fatto che in un pomeriggio o in una serata di sportello non arrivi alcuna chiamata? o è parola e informazione solo il «caso eclatante»? E che cos'è un «caso eclatante», quello per cui nel progetto dell'osservatorio si era stabilito che avremo deciso un'azione comune, capace di mettere insieme le diverse componenti che vi aderivano? Uno sciopero della fame, una rivolta? Un caso di autolesionismo e il modo in cui viene trattato dai medici della Croce rossa o dai poliziotti? Un trattenimento illegale, uno degli infiniti trattenimenti «per errore», quelli per esempio in cui le persone possiedono i cedolini della sanatoria che dimostrano la loro regolarità, ma non ce li hanno in tasca al momento in cui vengono fermati per strada?

Poi sono arrivate le parole di Grigore. Una frase: «ho paura di volare». E la sua paura - non eclatante, una normale aereofobia - ha messo a tacere noi, con le nostre disquisizioni, e ha aperto la strada ad altri racconti.

Il suo innanzitutto. Necessariamente, il giorno in cui ci ha chiamato e nei giorni successivi, un racconto intrecciato al racconto del luogo in cui si trovava, alle pratiche di quel luogo, che per la prima volta, noi, da fuori, ascoltavamo direttamente da lui, uno di loro, dentro. Senza il filtro che durante le visite ai Centri i gestori della detenzione riescono sempre a frapporre tra le parole dei detenuti e la possibilità d'ascolto dei visitatori.

Già la paura di Grigore era un elemento singolare. Per chi di noi insisteva sul fatto che tutto, qualsiasi parola, facesse notizia, le parole immaginate, mentre si discuteva su di esse, si profilavano altrettanto plurali di quelle dette dall'istituzione-Centro su di loro. Quando gli operatori della detenzione o i poliziotti parlano dei loro «ospiti», riescono infatti a proferire solo parole collettive, attraverso cui far rientrare in una casella miseramente «etnica» qualsiasi gesto, desiderio, comportamento, aspirazione di chi è obbligato a subire quella detenzione. Nessuna singolarità: e noi, immaginando le loro parole, opponevamo un'altra non singolarità - saranno parole sulla noia, una noia provata da ognuno ma che si innalza dai Centri come un canto plurale, accompagnato dagli altri canti nati tra i recinti di questa nuova forma di detenzione: il canto della rivolta, spesso individuale ma atto autolesionista tanto abituale da poter essere immaginato, da fuori, come l'autolesionismo di un unico corpo multiplo; o ancora il canto dello sciopero, ovviamente della fame - unica forma di sciopero, anch'essa autolesionista, per chi non ha diritti da rivendicare.

Invece, Grigore aveva paura.

«Ad hoc» è forse la parola più ricorrente della signora che mi concede un'intervista, seduta cordiale e imbarazzata dietro alla sua scrivania nella sede di via Dogana, a Milano, di fronte a quella che per più di vent'anni è stata la libreria delle donne.

Deportati d'ogni epoca

Nessuna indicazione sul citofono: devo dunque chiedere all'usciere, perché quella è la sede degli uffici amministrativi della compagnia, non di quelli aperti al pubblico. Noto invece la targhetta di un'associazione di deportati della seconda guerra mondiale, i cui locali devono trovarsi al piano terra, mentre i locali della compagnia di deportazione che mi interessa si trovano al piano superiore. Una casuale coincidenza, di cui non posso che sorridere, e che è solo l'inizio premonitore di una coincidenza molto meno casuale. «Ma se lei si rifiutasse... perché lei non è nemmeno l'ultimo anello della catena, come si soleva dire un tempo», provo a chiedere alla proprietaria della compagnia aerea ClubAir che sono andata a intervistare. Mi aveva già parlato del suo dovere di imprenditrice, delle crisi dellea compagnie aeree, tutte, ma soprattutto delle compagnie piccole come la sua; e ora riprende questo discorso, perché stiamo parlando di una percentuale minima del suo fatturato, il 3 o 4, al massimo il 5 per cento. Precisa, però, di essere proprio l'ultima pedina, di non organizzarli certo lei i voli, e precisa anche la sua puntualità - esattamente come qualcuno a quel tempo - per questo, dice, proprio perché lei è puntuale e gli aerei partono all'ora stabilita hanno continuato a rivolgersi a lei.

«Ad hoc» è anche il modo in cui la compagnia si presenta sul sito: «per l'esigenza di voli `ad hoc' o di charter regolari», così una didascalia sotto l'immagine di un aereo. Chi deve intendere intenda. Ed effettivamente chi deve intendere sembra che intenda; ma è solo dalla conversazione con lei che capisco il meccanismo della catena. Intendono, da un po' di tempo, per i voli normali e per passeggeri «particolari», non più le questure delle città da cui devono essere organizzate le espulsioni, ma le agenzie di viaggio a cui si rivolgono le questure; le quali a loro volta, la Cit per esempio, se il volo è per la Romania chiamano la ClubAir per uno, due, dieci voli di sola andata, tariffa piena, e vedono la disponibilità. Accade quotidianamente, spesso il giorno prima per quello successivo; e se i posti non sono disponibili a volte si rinvia, altrimenti l'agenzia di viaggi si rivolge a un'altra compagnia. 10 voli alla settimana, qualche settimana nemmeno uno, qualche settimana più di dieci. Facendo un calcolo, circa 500 passeggeri particolari sui voli normali nell'arco di un anno.

«Ad hoc», però, sono anche i voli che la compagnia organizza da varie città, a seconda delle esigenze di chi chiama, a differenza dei voli di linea della compagnia, che avvengono sempre da Verona, Bologna, Bari o Ancona. E chi chiama, in questo caso, è sempre lo stesso cliente: una telefonata, circa una settimana prima del volo, per chiedere di organizzare un aereo; si stabilisce la data, l'ora di partenza, il luogo. Tutto normale: si tratta sul costo che il cliente, il ministero degli interni, tende a voler pagare per persona, unico momento in cui concede un esiguo bagliore d'individualità, l'individualità di un numero, agli «irregolari», mentre la compagnia stabilisce il costo in base all'aero e all'aeroporto di partenza. La compagnia si organizza, fa trovare all'aeroporto l'aereo; si organizza anche il cliente, dispone il modo in cui i passeggeri vengono trasportati all'aeroporto, li fa salire sull'aereo e l'aereo parte con circa settanta passeggeri «particolari» e una decina, forse un po' meno, di poliziotti.

Non tutto normale dunque, ma sicuramente tutto abituale. Voli charter, ad hoc, per «espulsioni etniche», 4 o più volte in un anno, 4 o 5 nel 2003, 3 nei primi mesi del 2004 per quanto riguarda la ClubAir, non so ancora per le altre compagnie. Quali? Tutte, insiste la proprietaria della ClubAir: è un business, assicura, soprattutto per i voli per paesi più lontani; e «penso che se uno ha l'aereo disponibile e gli viene richiesto, nessuno si tiri indietro, perciò non mi tiro indietro io». Lei, infatti, proprietaria di una piccola compagnia, 100 dipendenti circa due o tre dei quali rumeni, è contraria a questa legge, la Bossi-Fini, vota a sinistra, «forse più a sinistra di lei», mi dice, sebbene presti i propri aeri alle deportazioni per legge, al soldo della quale continuerà a impiegare la sua compagnia e i suoi dipendenti rumeni. Sugli altri tempi, altri deportati e altri deportatori, inutile parlare. Non con lei per lo meno, se ho voglia di farlo basta scendere di un piano e potrò soddisfare le mia curiosità.

E la paura di Grigore? L'avevo chiamato io, la mattina successiva: una telefonata breve e la sua inquietudine, gli avevano appena comunicato che doveva prepararsi per l'espulsione. Insieme a lui, altre otto o dieci persone. Poi il suo cellulare non rispondeva più. Anche questa è pratica normale. Dopo averli caricati sul pulmino la polizia ordina ai deportati di spegnere i cellulari. Sempre. Nessuna comunicazione con l'esterno - soprattutto non quella di un ultimo sos, perché qualcuno potrebbe intervenire - pena qualche tocco con i manganelli. Ma lui ha riacceso il cellulare. In fondo, il rischio di qualche manganellata è poca cosa nei territori dei paesi Schengen.

Destinazione Bologna

Bologna. Era riuscito a dirci che quella era la destinazione. Una ricerca internet e l'altro racconto si racconta da sé, se si prova a seguirlo. Ultima puntata di questo racconto: volo Verona-Bucarest, 2 aprile 2004, ore 15.30. Una settantina di passeggeri, anche in questo caso. Probabilmente, dice la proprietaria della ClubAir - di sicuro, insisto io - uno dei gruppi di deportati rom dopo lo sgombero della casa occupata di Via Adda, avvenuto il giorno prima. 600 poliziotti in tenuta antisommossa e qualche centinaio di persone, le famiglie che occupavano quella casa. Poi una selezione: per i regolari l'abituale campo di via Barzaghi, per gli «irregolari» un'altrettanto abituale espulsione. Per chi non era direttamente implicato, per noi, spettatori dei tg regionali: la prima attuale riedizione di un rastrellamento nei ghetti. Destinata, come il resto, a diventare abituale.



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