STORIE

L'anno del colonnello. Atene `67

MEMORIE DI GRECIA
CASTELLINA LUCIANA,GRECIA

Al controllo dei passaporti, all'aeroporto di Atene, ci arrivai col cuore in gola. Un po' per l'emozione, un po' perché temevo non mi avrebbero lasciato entrare. Era il settembre del 1974 e solo da poco più di un mese i colonnelli erano stati cacciati. La democrazia - sempre intermittente nei Balcani - sembrava fosse stata nuovamente legittimata. Ma a capo del governo provvisorio c'era ancora una volta il vecchio Costantino Karamanlis, grand patron della destra greca, richiamato dall'esilio dove si era ritirato perché non gli piaceva Papadopulos. E che però il terreno al colpo di stato che i militari avevano compiuto nel 1967 aveva contribuito non poco ad ararlo. Il clima, insomma, era tuttora incerto, i compagni diffidenti e cauti. Ma la Grecia, vivaddio, si era liberata, un secondo fascismo europeo, a pochi mesi da quello portoghese, era caduto e ne restava ormai solo uno, quello spagnolo, ma pensavamo tutti che ne avrebbe avuto ancora per poco. Fu in effetti - quel 1974 - un anno davvero fantastico. Così colmo di speranze che nessuno di noi avrebbe mai pensato che trent'anni dopo saremmo stati in un mondo così. Avrei voluto correre subito ad Atene, già alla fine di luglio, per riabbracciare i compagni usciti di galera o tornati dalle isole dove li avevano tenuti in prigionia. Ma il famigerato capo della polizia dei colonnelli, Yohannidis, era ancora al suo posto e mi avevano consigliato di aspettare, era probabile che ancora non fossero arrivati i contrordine alle frontiere. E io figuravo nella lista come espulsa: per sette anni non avevo potuto rimettere piede nel paese. Anzi: espulsa due volte.

La prima volta era stato in seguito al mio arresto, il 25 aprile del 1967, quattro giorni dopo il colpo di stato. La prima di una lunga serie. Era accaduto come nelle commedie cinematografiche e, con tante tragedie intorno, quasi mi vergognavo della vicenda: uscendo dalla doccia (come di solito si esce da una doccia) mi ero trovata la stanza piena di poliziotti. Ero corsa al telefono declamando la frase tante volte vista nei film - «telefono alla mia ambasciata» - ma le comunicazioni erano state ovviamente interrotte. Mi lasciarono comunque andare in bagno dove, sempre per via dell'apprendimento cinematografico, avevo ingoiato i foglietti con gli indirizzi dei pochi compagni che ero riuscita a rintracciare dopo la massiccia retata dei giorni precedenti. E poi mi avevano portato al famoso commissariato di via Bobulinas, dove negli anni successivi furono torturati decine di militanti. A me non fecero niente, anche perché i colleghi giornalisti protestarono immediatamente e perché l'ambasciata italiana intervenne subito, su ordine del ministro degli esteri Amintore Fanfani, incalzato da fiere sedute straordinarie del parlamento: la vicenda greca era plateale, i militari avevano eliminato anche la destra civile e tutti colsero l'occasione per rifarsi a poco prezzo una virginità antifascista.

Così dalla cella sotterranea fui portata su, negli uffici, più volte: perché i tentativi di liberarmi da parte dei concittadini diplomatici furono numerosi. Il primo ad arrivare fu il console del Pireo, Terracini, che mi sussurrò, complice, all'orecchio di essere cugino di Umberto e di firmarsi «diplomaticus» sulla Voce Repubblicana. Un rosso, insomma. Come il primo segretario dell'Ambasciata che mi informò di essere, invece, cugino del nostro Gianfranco Corsini e ad ogni buon conto anche personalmente partigiano. Si ingegnarono a convincere i poliziotti che Paese sera, giornale di cui ero l'inviata, era il più importante quotidiano d'Italia e che da noi, comunque, le donne non si battevano neppure con un fiore (letterale). Poi, il lieto fine.

La ragione per cui avevano scelto me per cominciare deve esser stata la mia conoscenza della sinistra greca e dunque il fatto che ero fra i pochi ad avere ancora qualche contatto. Perché bisogna dire che l'Atene dei giorni immediatamente successivi al golpe, dove eravamo arrivati con un piccolo aereo affittato dalla Rai, sembrava una città normalissima, piena di turisti primaverili e spensierati cui dovemmo spiegare cosa era accaduto. Gli arrestati - più di un migliaio - li avevano chiusi nello stadio del Phalerion, un'anteprima di quello di Santiago, sei anni dopo. Ma noi non lo sapevamo. Sapevamo solo che erano scomparsi, presi nella notte in pigiama, sorpresi nei loro letti. Nessuno credeva al colpo di stato in quel periodo e chi agitava lo spauracchio veniva irriso come un vecchio rimbambito (anche per questo, in Italia, negli anni che seguirono, ad ogni stormire di fronde non andavamo a casa a dormire).

A dirmi dove erano i prigionieri fu la moglie di Iliou, il presidente dell'Eda, il partito legale della sinistra greca, il Pc essendo ad ogni buon conto fuori legge anche in democrazia. Ma lo stadio, dal di fuori, non offriva alcun segnale allarmante, potevano benissimo esserci i calciatori in allenamento. Occorrevano immagini, soprattutto alla televisione. Così, saputo dove i parenti erano autorizzati a portare i pacchi, andammo a riprendere almeno loro. L'inviato della Rai era Furio Colombo, del cameramen non ricordo il nome. Ma il taxista non si azzardò ad avvicinarsi e perciò lo depistammo in un caffè. La sera stessa il filmato partì per Roma nella valigia di una turista americana. Furono le prime immagini del colpo di stato che arrivarono all'estero. L'indomani fui arrestata: Paese sera era meno importante della Rai.

Dopo pochi mesi, sebbene espulsa, ad Atene ero tornata per ingenuità. Da Paese sera mi telefonarono all'alba informandomi che il re Costantino era fuggito dalla reggia e, a Salonicco, si era posto alla testa di un pezzo di esercito ribelle che stava marciando sulla capitale. Pensammo che se si era mosso un monarca così imbelle era perché gli americani gli avevano dato il via, per liberarsi dei troppo imbarazzanti militari. Non sarebbe stato un gran cambiamento, ma almeno mi avrebbero lasciato stare. Bastava arrivare ad Atene e aspettare qualche ora che re Costantino arrivasse su un cavallo bianco. L'aereo di linea partì regolarmente, il che era già sospetto. Avevo il mio piano per passare al controllo passaporti: allora non c'erano ancora i computer e i poliziotti ci mettevano tanto tempo a verificare. Se avessi lasciato la valigia ai colleghi e avessi preso subito un taxi sarei passata. Così fu infatti: mentre mi allontanavo sentii chiamare il mio nome ma ero già lontana.

Trascorsi la notte in giro per Atene: non potevo andare in un albergo, meno che mai dai compagni ancora liberi (pochissimi). Non presi il treno per Salonicco, sebbene scoprissi con sorpresa che anche quello partiva come di consueto. Ma avevo fiducia negli americani e attesi l'alba. All'apertura dei caffè avevo un appuntamento piazza a Sindagma con i colleghi. Quando arrivarono mi dissero: «Sai dove sta il tuo re? A Roma».

Uscire dalla Grecia fu più difficile che entrarci. Anche perché firmavo all'epoca come direttore responsabile il giornaletto della resistenza greca stampato a Roma. Ci riuscii a seguito di una lunga trattativa condotta dall'ambasciata, un po' stufa di riavermi fra i piedi.

Sette anni dopo, il ritorno ad Atene, nel settembre del `74, fu denso di commozione. In Grecia non è come in altri paesi: i compagni usciti dopo anni di galera erano gli stessi, quasi tutti, che di galera ne avevano già fatta tanta durante le dittature precedenti. E che avevano tuttavia corso ancora una volta i rischi della nuova sfida al fascismo. Li trovai prudenti, più sospettosi del solito, temendo sempre il peggio. Tutti. E c'era da capirli, anche se per questo venivano criticati dai più giovani. Che in effetti con la loro estrema imprudenza avevano dato la spallata decisiva, nel novembre del `73, al regime, poi definitivamente crollato a luglio. Era avvenuto con la rivolta del Politecnico.

Quella occupazione repressa nel sangue, ora per ora, l'avevo seguita da Roma assieme ad Andrea Papandreu, anche lui, prima di venir esiliato, arrestato al momento del golpe, nel `67. La rivolta era nata per protesta contro la pesante intrusione dei colonnelli nella vita universitaria e poi via via si era andata ulteriormente politicizzando. Anche ad Atene era arrivata l'onda lunga del `68, attraverso i tanti fratelli maggiori che in quegli anni erano andati a studiare all'estero. E persino qualche novità tecnologica: alla facoltà di ingegneria avevano fabbricato una radio e di lì trasmettevano mobilitando la città. Avvertiti, erano arrivati a dar man forte i giovanissimi scolari delle medie e anche gli operai. Resistettero due giorni, poi l'ateneo fu bombardato con i carri armati. Quanti morti restarono sul terreno non lo si seppe mai con precisione. Al mio arrivo ad Atene andai a trovare la signora Comminou, un piccolo negozietto di antiquario, a Plaka. Sulla parete il ritratto di Dimidis, il figlio diciassettenne di cui aveva ritrovato il cadavere all'obitorio, la sera del 17 novembre. Al momento dell'attacco, alle tre di notte, nel Politecnico c'erano 5.000 studenti. La signora Comminou mi disse che non c'era certezza perché c'era ancora paura di reclamare i morti, i capi della polizia essendo ancora gli stessi. Ancora più paura c'era stata al momento, per il rischio di rappresaglia sui congiunti, con la speranza che i ragazzi fossero riusciti a fuggire e a nascondersi. La cifra finale fu poi fissata a 44 vittime. Ma la Grecia che poi farà cadere la giunta è nata di lì.

Ricordo che andai a trovare Andrea Papandreu nella vecchia casa di famiglia, a Castri, sobborgo nobile di Atene. Da quella casa ero partita un mattino tanti anni prima, nell'estate del `65, assieme al padre, storico leader della Grecia post bellica, primo ministro ogni volta che c'era un po' di democrazia e ridotto al silenzio a ogni arrivo di dittatore o semidittature. Era appena stato dimesso di forza dal re, che gli aveva voluto imporre, senza riuscire a piegarlo, un ministro della difesa, Garufalias, amato dagli americani. Un prodromo del colpo di stato vero e proprio.

Per un mese quotidiane manifestazioni sotto il Parlamento - migliaia di persone che gridavano «ena ena tessera» (114), il numero dell'articolo della Costituzione violato dal re - avevano accompagnato il dibattito in aula, dove, fiero e ostinato, George Papandreu ribadiva il suo «no» a ogni mortificante compromesso. Alla fine il primo ministro, reo di aver disubbidito a Washington, aveva deciso di andare a parlare al paese. Lo accompagnammo, una lunga carovana, quasi cento macchine, su su fino al nord, lungo le improbabili strade greche dell'epoca. A ogni incrocio una sosta: i contadini dei villaggi vicini si raggruppavano attorno a lui, lo prendevano in spalla, gli cingevano il capo di corone d'alloro. E lui, già quasi ottantenne, pieno di energia nella grande calura, spingeva innanzi il figlio Andrea, già ministro del suo governo, ma ancora impacciato e rigido come un professore universitario americano quale era in effetti stato per vent'anni, una «testa d'uovo», come, al suo arrivo dagli Stati uniti, lo avevano chiamato subito, con disprezzo, i suoi avversari.

Ora Andreas aveva imparato. Si era «grecizzato». La casa di Castri, dove il padre era morto qualche anno prima agli arresti domiciliari, era già affollata dai vecchi notabili del partito di Centro, in cerca del nuovo possibile erede, perché in Grecia anche i partiti politici sono come le monarchie. Ad accoglierli ancora la vecchia Vassiliki, la domestica di sempre. Ma l'esperienza dei sette anni trascorsi, il vento di quel passaggio straordinario fra i `60 e i `70, avevano cambiato ormai il quadro politico, la Grecia non era già più quella di prima. Lo si vide proprio in quei giorni di settembre, quando in un antico albergo della capitale Andreas aveva fondato il nuovo Partito socialista panellenico, il Pasok, e la sala era affollata anche dalle facce nuove dei giovani militanti del Politecnico, attratti più dai toni radicali di Papandreu, coloriti dalle accuse all'imperialismo americano, alla Nato, alla colonizzazione del capitale straniero, anche quello dell'Europa «collaborazionista», ben più che dai prudentissimi discorsi dei comunisti, usciti con due partiti dalla clandestinità.

La storia più recente è nota. Adreas Papandreu non rese la Grecia socialista nei suoi lunghi anni di governo, ma non fu nemmeno un esponente moderato della borghesia greca. Fu piuttosto un pèronista di sinistra, più vicino ai leader del terzo mondo che a quelli europei. Per portare la cultura socialdemocratica in Grecia si è dovuto attendere Simitis, studente e poi docente di greco all'Università di Francoforte. Qualche settimana fa il nipotino di George e figlio di Andreas, George anche lui, ha portato il Pasok alla sconfitta, battuto da un giovane Karamanlis, nipotino di Costantino.

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it