Della rivoluzione dei garofani conservo due reperti: uno, tuttora attaccato alla parete della mia stanza, è la copertina de O Journal; l'altro, un biglietto sdrucito, vergato a matita da Otelo de Carvalho, con cui, dalla caserma nella quale era stato appena posto agli arresti, mi avvertiva che il nostro appuntamento era rinviato. Fra l'una e l'altro sono racchiusi i due estremi dell'epopea portoghese, un anno e mezzo anomalo, anzi bizzarro, dall'aprile `74 all'autunno `75. Poi tutto rientrò nella normalità. La copertina raffigurava i leader rivoluzionari di tutti i tempi seduti sui banchi di scuola: da Lenin a Mao a Gramsci a Bakunin a Trotzki, senza dimenticare né Stalin né Rosa, ma anche Marcuse e Sartre, il volto assorto di chi è alle prese con un rompicapo. Alla lavagna la carta del Portogallo sovrastata da un punto interrogativo: che diavolo era questa rivoluzione condotta da militari che avevano letto Marx, non uno dei soliti colpi di stato, magari progressisti e però autoritari, come tanti altri nel terzo mondo, ma con un'apertura di credito piena e persino eccessiva a ogni possibile esperienza sociale di base, una straordinaria multiforme politicizzazione non solo consentita ma anche sollecitata, uno slogan ,«el poder ao povo», che era anche un progetto - il «piano-guida» - di democrazia diretta? Per tutti un rebus.
Militari anomali
Ricordo quando tornò Rossana, la prima di noi a metter piede nella terra lusitana liberata perché invitata proprio da quegli ufficiali a tenere una conferenza nel loro circolo: ci raccontò stupefatta, e divertita, del capitano Melo Antunes e del maggiore Tomè, dei graduati del settimo cavalleria, in divisa e stivali, che l'interrogavano su Gramsci: colti, educati, come di militari non ne avevamo visti mai e che però erano cresciuti nelle caserme degli ultimi, miserandi bastioni dell'impero in disfacimento, dove era giunto, attraverso i più giovani ufficiali di leva che avevano studiato nelle università europee, l'eco del '68.
Il vero enigma, la specificità della vicenda, era in effetti questo Mfa, Movimento delle Forze Armate, che, allontanato il reazionario colonnello Spinola, aveva preso le redini del paese avviando una serie di processi inediti nella storia dei socialismi realizzati. Ed è ben comprensibile che l'esperienza che si metteva in moto avesse affascinato la nuova sinistra di tutta Europa, in quegli anni alla ricerca di una strada che non ripercorresse gli errori sovietici ma nemmeno segnasse la rinuncia a combattere il capitalismo come aveva fatto la socialdemocrazia. E non mi pare ci sia davvero niente da irridere, come stanno fastidiosamente facendo tanti giornali in questi giorni, nell'entusiasmo che l'accolse e nella passione che suscitò: se in tanti andarono a Lisbona in quei mesi non fu per turismo politico, ma perché valeva la pena seguire da vicino, capire. E i primi a esserne contenti furono proprio i portoghesi che rompevano dopo mezzo secolo il loro isolamento ed erano affamati di dialogo.
All'aereoporto, accanto ai tabelloni con gli orari di arrivo e di partenza degli aerei, c'erano, fissi, gli avvisi con le convocazioni del giorno, affinché chi arrivava potesse subito orientarsi (in tutte le lingue, meno che in spagnolo: Franco era ancora al potere e i compagni che pure accorsero a migliaia dal paese vicino erano obbligati a nascondere il volto nelle manifestazioni e a non dare appuntamenti nazionali). Gli italiani erano come sempre esorbitanti: ricordo ancora i cartelli: «Lotta continua si riunisce alle 22 », «il Pdup alle 21....» e così via. Tutti al camping sulla collina, fra gli alberi del grande parco di Monsanto, «vantaggio collaterale» del salazarismo che, combattendo il progresso, aveva risparmiato Lisbona dalla moderna speculazione edilizia. In quel bosco, poco graditi vicini, condividevano lo spazio con i primi contingenti di pieds noirs poveri e rancorosi, rimpatriati dalle colonie liberate in gran fretta dopo il 25 aprile.
Notti rosse
Si discuteva fino all'alba e ci si incontrava con i nuovi compagni che la rivoluzione dei garofani ci aveva inaspettatamente offerto. Noi vedevamo quelli del Mes, il movimento della sinistra socialista, per i quali il comunismo eretico de il manifesto costituiva un punto di riferimento. Fra loro Jorje Sampajo (che poi venne anche a Bologna al congresso del Pdup del 1975), oggi presidente della Repubblica.
I comunisti ufficiali si vedevano in realtà assai poco, sebbene per una fase abbiano pesantemente contato (e non per il meglio). Questa storia della democrazia diretta e dal basso non era pane per i loro denti. Per altre ragioni, neppure per quelli dei socialisti, che oltretutto venivano sospettati di esser la longa manu dell'ambasciatore americano Carlucci (il dramma del Cile si era appena consumato, lasciando sul terreno un clima appestato di sospetti).
Solo l'Mfa accettava i mille piccoli soviet che erano nati ovunque: nei quartieri (i potenti comitati dei moradores), nell'esercito, nelle fabbriche, negli alberghi, nei giornali, dove i tipografi mettevano in discussione la divisione del lavoro e chiedevano di aver voce in capitolo, come i giornalisti, sulla linea della pubblicazione.(Questa fu la vicenda dell'occupazione del quotidiano socialista La Republica, non l'effetto di un ordine venuto da Cuhnal). Lisbona era una città meravigliosamente insubordinata, provocatoria, i marmorei, bianchi monumenti salazariani dissacrati dalle scritte rosse del grande giornale murale in cui la capitale si era trasformata, falci e martello e umorismo antiautoritario («abbasso la cupola viva la copulazione», leggo in una vecchia foto scattata allora); e poi le code per vedere i film proibiti che venivano sequestrati ancora persino in Italia, trent'anni di dopoguerra ingoiati tutti in una volta, più il `68 , che per un momento sembrò realizzato, la fantasia al potere, i marinai con il fazzoletto rosso al collo, i soldati che ubbidivano ai loro delegati anziché ai graduati e venivano chiamati a risolvere tutto, persino le liti familiari, tanto che il 1° reggimento artiglieria leggera addetto all'ordine della città era stato ribattezzato 115 ( il numero che corrispondeva al pronto intervento ).
Come sono poi andate a finire le cose è storia nota. Anche fra di noi discutemmo nei mesi di declino della rivoluzione su come giudicare il rapidissimo succedersi degli eventi. Ricordo le lunghe telefonate fra Lisbona, dove rimasi per il giornale settimane e settimane, e la redazione a Roma: come valutare il documento varato il 25 luglio dai nove ufficiali «ragionevoli», autore principale Melo Antunes, il più saggio degli ufficiali, (ma firmatario anche l'assai radicale Otelo), con cui si prendevano le distanze dalla fatale deriva «putchista» che il generale Gonsalves, l'austero primo ministro legato all'ala militare del Partito comunista, sembrava aver innescato nel tentativo di rispondere agli attacchi sempre più scoperti che il resto dell'Europa ( incluso il prudentissimo Pci del compromesso storico) muoveva all'esperienza portoghese? Bisognava rassegnarsi a seppellire l'anomalia dei garofani, c'erano altre strade percorribili?
Ma i pericoli non andavano cercati solo nelle trame che i servizi segreti delle capitali potenti o il quartier generale della Nato certo allestivano. Emersero via via dai torbidi sussulti di una società che non era tutta rappresentata dalla libertaria Lisbona o dall'Alentejo rosso dei braccianti che avevano conquistato la terra, ma anche dal nord del «minifundo», della piccola proprietà contadina, dalla conservatrice Porto, abitata da una borghesia legata a filo doppio, anche per via del commercio dei vini, con l'Inghilterra. Inizialmente rinviata per effetto delle risorse offerte dal «tesoro» del vecchio dittatore, che in un paese poverissimo aveva nascosto sotto il materasso 850 tonnellate di lingotti d'oro, la crisi economica, aggravata dal boicottaggio e dalla fuga di capitali, cominciava a mordere soprattutto qui. Nella società profonda non erano state conquistate casematte e i militari più radicali ne avevano sottovalutato l'importanza.
Fuoco a Ferragosto
Il primo, drammatico segnale d'allarme arrivò a ferragosto. Fu a tarda sera che fummo avvertiti che ad Alcobasa, 100 km a nord di Lisbona, c'erano scontri a fuoco. Quando arrivammo dovemmo a fatica farci strada fra reparti dell'esercito provenienti dalle caserme di Cardao di Reinha e di Leira, politicamente rimaste lontane dal Mfa, e una folla di contadini armati di forconi e anche di armi da fuoco, aizzati da squdraccie di provocatori prezzolati. Circondavano il grande centro sportivo, isolato sulla cima della collina, dove si era riunito, per una sessione straordinaria, il Comitato centrale del Pcp. Volevano assaltare l'edificio e cacciare quelli che ritenevano volessero strappargli la terra. Asserragliati nella palestra i comunisti, anche loro armati, rimasero per ore incerti se rispondere e aprirsi un varco, o accettare la mortificante difesa del conservatore comandante Charais, chiamato a salvarli dal popolo.
La tensione si protrasse per ore, interrotta più volte da fucilate sparate dall'una e l'altra parte, noi giornalisti sotto le auto per ripararsi dalle pallottole vaganti. Poi, in un'alba livida, la resa del Pcp, inevitabile. In più di duecento furono caricati sulle camionette dell'esercito e portati in salvo, fra due ali di contadini minacciosi e di ironici militari. Un'immagine drammatica che per sempre mi rimarrà impressa: il volto scuro del vecchio Alvaro Cunhal, l'irriducibile stalinista dagli occhi azzurri e i capelli argentei, che proprio nella prigione di Peniche, a poca distanza, era stato rinchiuso per anni e anni, sette in isolamento, e anche appeso per i piedi, per giorni, nella cella, sempre in carcere mai in esilio, come è sempre stata la sorte dei comunisti.
Gli assalti alle sedi del Pcp nel nord si susseguirono, sotto gli occhi di una parte delle forze armate che né attaccavano né difendevano, si limitavano a umiliare i militanti, come nella tradizione portoghese si fa coi tori, che non si ammazzano. Perché nel frattempo si era spezzata l'unità del Mfa, le cui diverse correnti si combatterono per mesi, sia pure senza mai usare la forza di cui pure tutti disponevano, mentre cresceva l'isolamento del governo Goncalves, sempre più ossessivamente impegnato a infiltrare dei suoi fidi tutti i possibili gangli del potere,mentre precipitosamente crollava la sua egemonia nella società. Persino il partito comunista cominciò a rendersi conto che era da irresponsabili procedere allo scioglimento dell'Assemblea Costituente come il generale primo ministro proponeva. Ma era tardi, i modi antidemocratici con cui Cunhal gestiva il sindacato avevano logorato la loro credibilità nelle fabbriche, gli operai si disinteressarono di quanto accadeva, mentre impazzivano nell'estremismo le sei organizzazioni che avevano dato vita al Fronte Unito Rivoluzionario, da cui avevano espulso il Pc, giudicato «capitolardo» perchè si era finalmente deciso a proporre un rapporto con i socialisti. Sornione, Mario Soares, rimaneva in disparte, aspettando momenti migliori per far valere quel 38 % di voti guadagnato alle elezioni che poco o niente contavano nel determinare il potere reale. Ricordo in quelle drammatiche settimane il titolo di un giornale: «Il Ps è forse andato in ferie?»
L'atto finale
Il 12 settembre , mentre in città si moltiplicano i «boatos» su possibili colpi di mano dell'una o della'altra fazione, l'appuntamento decisivo è a Tankos, 128 km da Lisbona, alla scuola pratica di ingegneria del genio. Al cancello un ultimo segno della stagione: un allievo ufficiale presta servizio, mano nella mano con la fidanzata che l'è venuto a trovare. Ci smista gentile in una sala per farci seguire i lavori dell'assemblea del Mfa, il parlamentino del movimento, 240 delegati, 120 dell'esercito, 60 rispettivamente della Marina e dell'Aviazione che dovrà trovare una soluzione e colmare il vuoto di potere che si è creato. Ma quello cui assistiamo è il suo funerale: partecipano solo i goncalvisti e pochi altri, una minoranza, nonostante la presenza di un riluttante presidente della Repubblica, il generale Costa Gomes. Gli altri, la destra, ma anche la maggioranza che si riconosce nel documento dei nove, si sparpaglia per i prati circostanti, o torna nelle proprie caserme.
L'Assemblea del Mfa muore a sei mesi dalla sua costituzione, decretata dalla legge 75 del Consiglio della Rivoluzione, depositario della legittimità rivoluzionaria. Era nata nel salone dell'Accademia di sociologia militare nella notte fra il 12 e il 13 marzo, poche ore dopo la svolta radicale impressa dall'ala progressista che aveva sventato l'ultimo tentativo di golpe preparato dai paracadutisti. Nei giorni successivi aveva proceduto alla nazionalizzazione delle banche e delle società di assicurazione, il 9 luglio e aveva varato il progetto di potere popolare, che non si era capito se dovesse affiancare o sostituire le istituzioni parlamentari. Il 25 luglio la reazione dei nove, che accusano l'Assemblea di aver compiuto una fuga in avanti.
La vicenda del Portogallo non è comunque finita in tragedia, come avrebbe potuto. Per merito di tutti, in definitiva, ma innanzitutto del Mfa che, nonostante le divisioni, riuscì a evitare lacerazioni cruente e a impedire si creasse lo spazio per pericolose avventure. Negli anni ottanta ho continuato a seguire le vicende del paese, in tutt'altra collocazione: come membro della commissione mista Parlamento europeo-Parlamento portoghese che ha preparato l'ingresso di Lisbona nell'Unione europea. Nonostante le vittorie elettorali della destra, a più riprese, il segno della stagione dei garofani in Portogallo si percepisce. E' un buon segno, un anticorpo prezioso.
E il 12 ottobre scorso sono stata contenta di sfilare con il vecchio Mario Soares, di cui confesso di aver pensato allora il peggio, nella marcia Perugia-Assisi. Contro la guerra all'Iraq senza si e senza ma.