Gli americani stavano bombardando dal cielo e da terra Falluja; una moschea era stata appena sventrata; i nostri «alleati» ucraini erano stati costretti ad abbandonare Kut, fra Baghdad e Nassiriya e anche Kerbala sembrava esser stata liberata, così come interi quartieri delle principali città del nord e del sud, da milizie sunnite e sciite, sostenute da folle inferocite; le caserme di tutti gli eserciti della coalizione erano sotto attacco; i media arabi - tutti - denunciavano l'assassinio, via cannonate con bocche di fuoco da 105 millimetri, di civili (definiti «marmaglia» dai nostri generali) per mano di militari italiani impegnati nella operazione Antica Babilonia. E' in questo scenario che nell'aula effettivamente sorda di Montecitorio il nostro ministro degli esteri ha assicurato che il contingente italiano sarebbe rimasto in Iraq per «aiutare la popolazione civile», «proseguendo il dialogo» per il quale stava «ottenendo il riconoscimento del suo ruolo, sempre positivo e utile per la popolazione». Non foss'altro che per via di una simile narrazione dei fatti la maggioranza dell'opposizione, detta «triciclo», avrebbe dovuto urlare e chiedere l'immediato ritiro degli italiani, militari e cercatori d'affari (perché ci sono anche quelli in Iraq). E invece no, neppure la caduta dell'ultimo velo con cui il governo ha cercato di mascherare la presenza militare italiana, è servita a smuovere i triciclisti (l'ossimoro «intervento militare umanitario» è stato esteso a dismisura nella sua applicazione). Rutelli, fin dal mattino, si era effettivamente detto - scrivono i giornali - «preoccupatissimo», perché, sagace, aveva intuito che era ormai divenuto «chiaro che non stava andando avanti il processo di pacificazione», ma la Margherita, intervenendo nel dibattito parlamentare per bocca di Castagnetti, si è limitata a trarne, come conseguenza, l'impressione «che il governo non avesse piena consapevolezza del dramma in atto». Sia lui, che il fedele Intini («non si può spezzare l'alleanza fra Europa e Stati uniti»), hanno ritenuto di non poter chiedere «di riportare a casa oggi stesso il nostro contingente»; e però non l'hanno chiesto nemmeno per le prossime settimane. Si attende che l'Onu arrivi, se per dipingere di blu i caschi delle truppe già in loco e così proseguire «la pacificazione» o per altra non precisata impresa, non si sa. Un miracolo che per ora aspetta anche Violante. Il quale al governo ha chiesto quattro cose: di sollecitare una risoluzione del Consiglio di sicurezza; di promuovere una riunione con i capi di stato europei per valutare assieme la situazione; un diverso rapporto col Medioriente; un impegno contro la fame e la miseria (in Iraq, suppongo). La quinta domanda, che poi doveva essere la prima - il ritiro immediato, come atto politico di rottura con la scellerata guerra irachena, come condanna dell'assoluta incostituzionalità della partecipazione italiana, come indispensabile premessa ad un intervento dell'Onu - anche al capogruppo diessino, è restata in gola. Forse «riconsidererà» la sua posizione se il governo non farà le quattro cose predette, ma per ora aspetta. Forse non proprio fino al 30 giugno, ma un po' prima.
Poiché ogni giorno che passa l'unità fra fazioni irachene che sembravano inconciliabili si va saldando; poiché un'opposizione caratterizzata da atti terroristici, tipica forma di lotta di gruppi isolati e disperati, va trasformandosi in resistenza di popolo; poiché sembra che nessuno, ma proprio nessuno, in Iraq ami la presenza di truppe straniere siano italiane o polacche o americane; poiché in questo quadro, stante l'attuale posizione di un bel pezzo della sinistra europea, un suo ruolo nei confronti del Medioriente e in favore di un'Europa più autonoma si va bruciando, c'è da chiedersi, dopo questo capolavoro politico della maggioranza Ds, cosa Violante potrà trovare al termine della paziente attesa.