Ogni anno, attorno al 6 aprile, la comunità degli esuli tutsi in Italia si dà appuntamento a Milano, in una cascina periferica, per commemorare lo sterminio che dieci anni fa causò la morte di 937.000 persone (questo il bilancio ufficiale fornito meno di una settimana fa dal governo ruandese): uomini, donne, vecchi, bambini, neonati. Un eccidio «scientifico», di proporzioni immani, minimizzato dall'Occidente e in particolare da Usa e Onu, che, durante i primi due mesi dei massacri - mentre i reporter filmavano immagini inequivocabili - fecero di tutto per non pronunciare la parola genocidio. «Come avevano fatto in Bosnia» scrive Samantha Power in Voci dall'inferno (Baldini Castoldi Dalai) «i funzionari americani evitarono di nuovo la parola g. Avevano paura che usarla avrebbe costretto gli Stati uniti ad agire secondo i termini della convenzione sul genocidio del 1948». Si continuò a spiegare la tragedia ruandese con il ginepraio di antichi odi tribali inattingibili alla razionalità moderna. Ma per gli esponenti della comunità tutsi, l'eliminazione pianificata che ebbe luogo in Ruanda fra il 6 aprile e il 4 luglio 1994, con l'obiettivo di sterminare tutti i tutsi, si inscrive appieno nella storia dei genocidi del 900. Nella cascina milanese gli abbracci scambiati e la vivacità degli abiti delle donne trae in inganno solo per poco: ciascuno ha nello sguardo l'ombra di immagini impossibili da dimenticare, e la consapevolezza di essere un sopravvissuto. Un pranzo frugale, scambi di informazioni su parenti e amici, poi si canta, si prega, si ascoltano i discorsi degli anziani. Qui incontriamo Aloys Rutakamize, Alphonse Mbaraga e Shadrac Musoni.
«Noi tutsi abbiamo una parola per definire il nostro genocidio: Itsembatsemba, che racchiude in sé il concetto di "catastrofe"» dice Rutakamize. «Non è un problema di numero, né di quantità, né di gravità. Il punto è la soppressione sistematica, studiata a tavolino, di un gruppo o di un'etnia. La pianificazione della soppressione dei tutsi cominciò ancor prima dell'indipendenza. Fu allora che ebbe inizio il processo di radicalizzazione del sentimento dell'odio dell'altro, visto come origine dei problemi individuali e collettivi. Dire che tutto accadde nel 1994 è un errore gravido di conseguenze».
Radici coloniali
«Ciò che è avvenuto in Ruanda ha radici lontane» riprende Mbaraga. «Il potere coloniale belga, che aveva bisogno di distinguere tutsi e hutu per meglio regnare e manovrare gli uni contro gli altri, prima aveva favorito la minoranza tutsi, con incarichi privilegiati, scolarizzazione più alta, pratica dell'allevamento, mentre alla maggioranza hutu era consentita solo l'agricoltura. Ma quando i tutsi iniziarono a rivendicare l'indipendenza, i belgi non esitarono ad aizzargli contro gli hutu, sostenendo la grottesca teoria secondo cui la maggioranza era oppressa non dal colonialismo ma dalla minoranza tutsi».
«Nel 1959 gli hutu iniziarono a bruciare le case, ad ammazzare la gente» continua Rutakamize. «Per la prima volta si vide in Ruanda un vicino che andava a bruciare la casa del vicino. Nella nostra cultura bruciare la casa di una persona è un atto inconcepibile; quando si vuole manifestare amicizia all'altro gli si dona acqua o fuoco. Ma gli hutu non si sono limitati a bruciare le case; hanno ucciso con modalità del tutto estranee alla gente del Ruanda: uccidevano non l'uomo tutsi, ma il tutsi che era "serpente", "scarafaggio", "animale impuro". Parlavano di "disinfettare il paese". I tutsi sono più alti degli hutu; ebbene, gli tagliavano le gambe perché si accorciassero e diventassero come gli altri».
De-umanizzare
«Disinfezione», «derattizzazione», «liquidazione», parole ricorrenti nell'ideologia nazista che voleva de-umanizzare semanticamente, prima ancora che eliminare fisicamente una parte dell'umanità...
«Il progetto di "estirpare" i tutsi aveva un carattere sia materiale che simbolico» commenta Musoni «ma non era facilmente attuabile, perché il Ruanda era una società compatta - una sola lingua, stessa cultura, stesso cerimoniale per i momenti rituali - molti matrimoni misti, quindi era necessario stigmatizzare forti elementi di differenziazione. Nel 1936 il potere coloniale belga, succeduto alla dominazione tedesca, introdusse una distinzione pseudoscientifica per la popolazione - hutu, tutsi e twa pigmei - con attribuzioni fisiognomiche e caratteriali: i tutsi alti, arroganti; gli hutu più piccoli, laboriosi, di indole pacifica; i twa, molto bassi, considerati pariah. Poi venne imposta una carta di identità dove, alla valutazione della statura e dei tratti somatici, si sovrapponevano notazioni di natura sociale, etnica ed economica. I tutsi erano identificati come tali anche per il fatto di possedere più di 50 vacche. Un delirio razzista, ma anche un'illogicità sorprendente che tuttavia andrebbe studiata a fondo».
Leggi razziali
«I pregiudizi etnici di per sé non sono sufficienti a spingere un gruppo a volere l'eliminazione di un altro» dice Mbaraga. «Quando, alla fine degli anni `50, tutta l'Africa lottava per l'indipendenza, il Belgio si rese conto che doveva rinunciare al Congo, le cui ricchezze erano ambite da paesi più potenti - come Usa, Germania e Francia - e che, per mantenere un piede nel centro del continente africano, doveva scegliere tra Ruanda e Burundi. Scelse il Ruanda e, mentre le altre colonie vacillavano, raccolse i frutti della divisione che aveva operato nel 1936, convincendo gli hutu - o, meglio, quelli che aveva deciso fossero gli hutu - che il Ruanda non avrebbe potuto ottenere che un'indipendenza fittizia, giacché la popolazione avrebbe continuato a essere colonizzata dai tutsi. C'erano partiti politici ad appoggiarli, soprattutto il parmeh hutu, creato dalla chiesa belga. Fu allora che presero piede le leggi razziali vere e proprie. Si istituì il numero chiuso nelle scuole, limitato al 9%, la presunta percentuale della popolazione tutsi rimasta nel paese. Lo stesso accadde nell'amministrazione pubblica. I tutsi non avevano più diritto di insegnare, di lavorare».
«Dopo il colpo di stato del 1974, nacque in clandestinità il fronte patriottico ruandese, che diede inizio alla guerra di liberazione dei tutsi in esilio» continua Rutakamize. «Fu allora che il gruppo hutu al potere iniziò a propagandare l'odio verso i tutsi. Le gerarchie militari avevano deciso che per eliminare il problema alla radice era necessario che alla soluzione finale partecipasse anche il popolo, in una sorta di battesimo di sangue collettivo. Gli hutu furono organizzati in squadre di sterminio programmate. Poco prima dell'attacco del fronte si era creato una sorta di partito formato da "estremisti di manovalanza", i famosi interahamwe, e si era armato un certo numero di persone destinate a presidiare ogni comune. Questo per assicurarsi di poter attuare lo sterminio nel minor tempo possibile».
La strada della riconciliazione
«È necessario far capire a chi ha partecipato agli eccidi che il problema era ed è prevalentemente economico» spiega Musoni «e che c'è stato un imbroglio del quale anche loro sono stati vittime. Quando gli hutu, nel '61 ebbero accesso al potere, avrebbero potuto governare risolvendo definitivamente il problema delle minoranze, invece il malgoverno continuò. Le ricchezze si assottigliarono, così che in seno agli hutu si creò una scissione e il gruppo del nord fece il colpo di stato prendendo il potere a danno degli hutu del sud. Questo causò delle scissioni progressive, tanto che quel poco di ricchezza rimasta finì nelle mani di un gruppuscolo di hutu della collina del presidente. La gente dovrà pur capire che in quello che è successo le etnie non c'entravano, ma che alla base c'era solo un'idea di potere e di sopraffazione».
«Probabilmente non sono un buon cristiano» aggiunge Mbaraga «ma non credo sia possibile una pacificazione. La casa di mio padre è stata bruciata nel 1959. So chi è stato, avrei difficoltà a stringergli la mano, anche se non gli farei del male. Sono convinto ci sia un solo modo per rendere tollerabile la convivenza con i carnefici: creare le condizioni perché in Ruanda non si possa più coltivare l'odio etnico. Non dico che allora si arriverà alla riconciliazione, ma forse si potrà costruire una società dove il ricordo non diventi programma attivo di rivendicazione o di vendetta».